Economia

Gioia Tauro, ultima chiamata per area industriale e porto

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l’inchiesta

Gioia Tauro, ultima chiamata per area industriale e porto

Akmadu, un ragazzo senegalese di neppure trent’anni, sta in piedi immobile sotto un sole feroce. Tende la mano verso il finestrino di una delle rarissime automobili che si avventurano nel cuore della terza zona industriale di Gioia Tauro e farfuglia nel suo italiano zoppicante: «Aiutatemi, devo comprare il biglietto del treno. Vado a Foggia a raccogliere pomodori».

Di fronte ad Akmadu una delle tante fabbriche aperte e chiuse con i fondi della 488, ora adibita a ricovero dei migranti con il cellophan lacerato al posto delle finestre e una montagna di rifiuti sul piazzale; alle sue spalle un campo di tende delimitato dai container con su stampigliata la scritta “ministero dell’Interno”. Lì dentro, accalcati come animali, vivono 300 immigrati che in autunno, quando comincia la raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro, diventano tremila. Se non ci fossero gli oleandri maestosi e alberi di eucalipto a ingentilire il panorama spettrale, questa zona industriale apparirebbe per quello che realmente rappresenta: un deserto sotto il quale è seppellito il futuro e il presente della Calabria. I ragazzi ghanesi, ivoriani, camerunensi, maliani e del Burkina Fasu sciamano in bicicletta con la naturalezza di chi non si stupisce più di nulla. Attorno a loro il reame di mille ettari in eterna dismissione: dall’immenso deposito della Sisa supermercati a quel che rimane dell’ Isotta Fraschini e della Woodline, un’azienda finanziata con la legge De Vito per l’imprenditoria giovanile. A qualche chilometro da qui, nei tre chilometri di banchine nel porto sospeso tra Scilla e Cariddi, le gru con le braccia immobili: fino a dieci anni fa le navi di transhipment facevano la coda in attesa di scaricare. Medcenter, la società che gestisce lo scalo, è stata costretta a mettere in Cig 400 dei mille portuali. E sulla loro ricollocazione comincia una delle tante storielle a metà fra tragedia e malagestio, un rosario infinito di errori e superficialità. Lcv capital management, una società americana, sostiene di essere pronta ad aprire due fabbriche in Italia per produrre automobili a basso impatto ambientale alla Isotta Fraschini di Gioia Tauro e alla ex Om di Modugno, vicino a Bari. Il governo ci crede e Invitalia mette sul piatto un finanziamento di 63 milioni. A Medcenter non pare vero di poter ricollocare i lavoratori in Cig, e la Regione Calabria gira un paio di milioni al Cefris, un centro di formazione di Gioia Tauro, per trasformare i portuali in metalmeccanici. Non passano neppure sei mesi e Lcv ci ripensa: produrrà le automobili in vetroresina solo a Modugno, ristrutturare la vecchia Isotta Fraschini sarebbe costato troppo e al contempo il piano è stato ridimensionato. E il patto sottoscritto solennemente nel luglio 2015 al Mise tra l’allora ministro Guidi, le due Regioni interessate e i sindacati? Acqua fresca. Trovare qualcuno che rimpiazzi Lcv è impresa disperata.

L’Asi di Reggio Calabria, alla quale tocca la gestione delle aree del retroporto, quelle per le quali da vent’anni si decanta lo status di area franca (ora derubricata in Zes, zona economica speciale) di tutto si è preoccupata, tranne che rendere accogliente questo luogo. Semplice la domanda: ma perché la Regione Calabria, sul modello di quella Siciliana, non abolisce le cinque Asi, una per provincia? Perché ci sono tante poltrone, quella di presidente e direttore in primis, che valgono dai 200 ai 300mila euro di appannaggio lordo all’anno?

IL TREND DEL TRAFFICO MERCI A CONFRONTO
Unità di Teu e variazione % 2015/2014. (Fonte: Srm su dati Autorità portuali e Assoporti)

Chi fossero i fortunati non è difficile da scoprire. Così, nel 2008, mentre regna Agazio Loiero, alla presidenza dell’Asi di Reggio Calabria finisce un medico pediatra, Giuseppe Gentile, già assessore al Comune di Reggio. Il nesso tra culle e retroporto sfugge ai più. Ma il presidente ha un ruolo politico, a quello tecnico ci pensa il direttore generale. Peccato che Pasquale Borgese, direttore Asi dal 2011, fosse anche proprietario, con altri parenti, di alcuni terreni della terza zona industriale, quindi in evidente – lui precisa “potenziale” – conflitto d’interesse. Tra pediatri-presidenti e proprietari terrieri-direttori la zona industriale di Gioia Tauro deperisce fino al punto che la Regione, dopo aver fatto i comodi suoi, smette di pagare lo stipendio ai 40 dipendenti, a secco da 13 mesi. A Borgese nessuno nega però una ricca liquidazione di 100 mila euro alla voce “incentivi”. In realtà, sotto la guida di Giuseppe Scopelliti, la Regione si era portata avanti. E conscia della palese inefficienza delle Asi decide di abolirle e di accorparle nel Corap, una struttura non ancora costituita il cui decreto è alla firma del governatore Mario Oliverio. Altri 36 mesi buttati al vento.

Per sentire l’opinione di un industriale che non solo non è scappato da Gioia ma ha messo definitivamente radici comprando cinque ettari di terreni, si deve superare un check point presidiato da due giovani soldati con giubbotto antiproiettile e i mitra spianati. Superato il cancello, il visitatore passa sotto la protezione di due carabinieri in borghese che lo scortano fino alla scrivania di Antonino De Masi, l’imprenditore che in un colpo solo si è fatto due nemici con la memoria di elefante: le cosche della ’ndrangheta, di cui ha denunciato i taglieggiamenti, e le banche italiane, accusate di praticare tassi usurai. De Masi, 140 dipendenti, produce macchine agricole vendute in tutto il mondo. Ma il suo umore è nero. Dice: «Sono un morto che cammina: ormai passo la mia vita a studiare le carte dei processi». Sull’Asi non le manda a dire. «È moralmente e penalmente responsabile del fallimento di questa zona industriale: pago canoni consortili per la manutenzione del verde, l’illuminazione e la segnaletica stradale. Ma si tratta di servizi mai resi, quindi ci troviamo di fronte a un’estorsione in piena regola». Poi la profezia: «Attenzione che se salta il sistema Gioia Tauro esplode la Calabria: qui ci sono in ballo 3mila stipendi».

E in effetti, ovunque si vada, le parola d’ordine sono sempre le stesse: soldi pubblici e lavoro. Lo chiede l’assessore comunale di Gioia Tauro, l’avvocato e giornalista Francesco Toscano, fondatore di un movimento che si rifà al new deal roosveltiano («regalare il monopolio di una infrastruttura strategica come il porto a una società privata è stato un errore catastrofico: o interviene lo Stato o il Sud è condannato alla miseria»); lo sostiene De Masi: «O gli aiuti di Stato, oppure si pagherà la Cig a vita») ; e lo reclama, con più garbo, l’assessore regionale al Sistema della logistica, Francesco Russo, finalmente un esperto di Trasporti (è docente a Reggio Calabria) in un ruolo cruciale, autore peraltro del nuovo piano regionale dei trasporti in stand by da oltre vent’anni: «Stiamo attivando tutti i fondi possibili, dal Por ai Fondi strutturali: per Gioia Tauro arriveranno dai 180 ai 250 milioni».

Stavolta gli impegni sono stati ufficializzati con la firma del presidente del Consiglio. Il Patto per la Calabria, firmato il 30 aprile ai piedi dei Bronzi di Riace, incorpora il rilancio del porto (e del retroporto) in una piattaforma tutta centrata sulle infrastrutture. L’ultima chiamata per una classe dirigente che ha collezionato una serie infinita di colpi a vuoto. In Calabria si sta giocando con il fuoco dell’insofferenza e dell’impoverimento dilagante. Guai a oltrepassare la linea rossa che separa la pace sociale dalla rivolta.

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