Economia

Il salto culturale che si deve compiere

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l’editoriale

Il salto culturale che si deve compiere

Storie che scrivono la storia. Viaggiando nell'Italia che innova si incontrano gli imprenditori che raccontano le loro esperienze, si lasciano analizzare, si confrontano con i loro pari, propongono soluzioni di sistema. L'Italia che innova non si ferma alla protesta o al lamento, anche se i motivi non mancherebbero. L'Italia che innova non si limita alla comunicazione, anche se la sua utilità è indubitabile. L'Italia che innova fa ricerca, quindi, in un certo senso, non può sapere se ce la fa. Ma sa che ce la può fare. E non molla mai. Gioca spesso da outsider. Ma vince molte partite. Come le aziende incontrate nel corso della tappa di Oderzo del Viaggio nell'Italia che innova e che sono raccontate in queste pagine del Sole 24 Ore di oggi. Che cosa insegnano? Innanzitutto insegnano che la tecnologia è cultura. Niente di meno. Lo sosteneva il grande geografo Pierre Gourou: la cultura di un popolo è essenzialmente la sua tecnologia.

E nelle fabbriche degli italiani che innovano si può toccare con mano la profondità di questa osservazione. La tecnologia non è un insieme di soluzioni tecniche che si comprano e si mettono in funzione seguendo un manuale di istruzioni. È il frutto di un processo innovativo che emerge da un’elaborazione culturale. Tiene conto di una visione, di una tradizione, di una capacità di fare sperimentazione, di un atteggiamento aperto all’ascolto del feedback che viene dal mercato e dall’evoluzione tecnologica prodotta dagli altri.È cultura, l'innovazione tecnologica, perché assume un senso soltanto nel momento in cui la proposta di chi la offre viene riconosciuta da chi la adotta: cioè quando la domanda e l’offerta parlano lo stesso linguaggio, condividono una visione delle cose. Sviluppano, appunto, una cultura.

L'innovazione italiana è comprensibile solo in questo modo. Lo si vede alla Nice, di Oderzo, dove l'elettronica e il design si fondono per generare un valore unico. Lo si vede nell'estetica progettuale della Fope che alimenta esigenze inevase dall'offerta tecnologica disponibile nell'oreficeria e di conseguenza realizza da sola le macchine che le servono. Lo si vede persino nella storia di uno specialista della logistica come Zanardo che si sviluppa dall’intersezione dell’ingegneria col gusto italiano per il cibo italiano. Tutte queste storie e le altre che si trovano negli articoli pubblicati dal Sole di oggi sottolineano l’interazione quasi indicibile tra la capacità imprenditoriale e la capacità espressiva degli innovatori. Tutto questo aiuta a conquistare nicchie anche importanti di mercato e produce, spesso, un grande valore aggiunto: non sempre genera enormi fatturati. E a questo proposito ci si domanda sempre come si possa superare la gabbia mentale del “piccolo è bello” per poter finalmente sviluppare un sistema di imprese più robuste sul piano finanziario, tali da rischiare meno per i cambiamenti del vento del mercato. Come esemplifica la storia della Pier che, con tutta la sua sapienza sartoriale che le consentiva di tenere duro in tempi molto difficili, non ha potuto evitare una crisi profonda in seguito all’abbandono di un singolo grande cliente.

La Pier ha poi ricominciato, grazie essenzialmente al suo “saper fare”, ma deve ripartire da una dimensione ancora più piccola. E forse imparare a puntare più in alto.

Perché se l’innovatività che si scopre in questi territori è straordinariamente resiliente, sta di fatto che ha bisogno di un salto culturale non banale. Queste imprese devono imparare a crescere senza perdere la loro identità. Accettando di managerializzarsi ma senza burocratizzarsi: come testimonia che si può fare la Irinox di Katia da Ros. Devono diventare più forti pur mantenendo la loro qualità coraggiosa, il loro gusto, la loro visione del mondo. Non è detto che un’azienda debba essere grossa per essere grande. E comunque le imprese italiane non vivono nella tentazione ingrossarsi a dismisura. Ma andrebbero messe nelle condizioni di rafforzarsi. Anche influendo sulle condizioni che lo possono favorire.

È il compito delle policy. Che possono contribuire al processo. Incentivando l’investimento in ricerca e innovazione. Facilitando il salto di dimensione, le acquisizioni di startup, la collaborazione con i centri di produzione della conoscenza. Perché lo scenario competitivo non cessa di mutare: la complessità cresce e la sfida innovativa accelera nel quadro della quarta rivoluzione industriale, quella dei big data, dei sensori, dell’internet delle cose, della robotica industriale, della connessione totale dei fornitori e dei clienti.

Nelle prossime settimane, il governo comunicherà le misure che intende decidere per favorire la crescita e l’innovazione del sistema industriale. E la Confindustria con le altre parti sociali e culturali interpellate dalla X Commissione della Camera per l’indagine conoscitiva sull’industria 4.0 sta contribuendo a discutere quelle misure. Il Sole 24 Ore a sua volta ne riporta una visione sintetica in queste pagine. Ma il tutto punta a un’idea. Che l’Italia che innova può crescere. Sviluppando la sua cultura dell’innovazione. Tracciando una via italiana alla quarta rivoluzione industriale. Ha tutte le capacità per farlo. Ma questa volta si deve superare: non può riuscirci se si lascia dominare dalle tensioni partigiane. Deve fare squadra per un obiettivo comune. E deve farlo per lungo tempo. Da questo punto di vista le serve un salto culturale non piccolo. Grande.

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