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Ex Lucchini, ancora in alto mare

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SIDERURGIA

Ex Lucchini, ancora in alto mare

Agf
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«Il Progetto di Aferpi a Piombino non è difficile, è molto difficile. Per la storia e per lo stato della siderurgia mondiale. Ma offre anche opportunità enormi». Così si esprime l’amministratore delegato della ex Lucchini, Fausto Azzi, in un’intervista esclusiva a Il Sole 24 Ore.

Certo è che, oggi, si vedono solo le difficoltà: la tabellina di marcia dell’accordo di programma firmato il 30 giugno del 2015 non è stata rispettata, l’acquisto dei forni elettrici è ancora in alto mare, i laminatoi lavorano a rilento e Aferpi non ha circolante per comprare l’acciaio semilavorato che gli sarebbe necessario. Non a caso c’è preoccupazione, diffusa nel sindacato e nel mondo politico. Sia locale che nazionale.

Il motivo alla base di tutto è uno: a detta di Azzi, Issad Rebrab, l’imprenditore agro-alimentare algerino che un anno fa ha acquisito la ex Lucchini attraverso Aferpi, ha finora «apportato capitali per oltre 90 milioni», ma per realizzare il piano industriale di Rebrab, come Azzi stesso ammette, di milioni ne servono svariate centinaia. E l’algerino, il cui piano prevedeva investimenti superiori al mezzo miliardo, non ha messo né quei fondi né le garanzie ritenute necessarie dalle banche, che con la ex Lucchini hanno una lunga storia di perdite.

«Mi piacerebbe di avere un po’ più di fiducia da parte delle banche», spiega Azzi. «C’è un dialogo aperto. Alcuni istituti hanno detto “grazie, ma no grazie”. Altri stanno studiando la cosa, e alcuni hanno messo per iscritto una manifestazione di interesse ad approfondire». Al nostro giornale risulta che per il reperimento di finanziamenti sia stata appena ingaggiata Equita, la Sim di Alessandro Profumo. Ma nel frattempo lo stesso Ad di Aferpi ammette che manca il circolante per far funzionare i laminatoi ai ritmi dovuti: «Se mi chiedete: “Siete in grado di girare in maniera adeguata?” Io dico assolutamente ancora no [...] Se potessi avere un po’ più di supporto finanziario potrei spingere sull’acceleratore. Purtroppo ho risorse limitate».

Nella primavera dell’anno scorso, sindacati e politici, locali e nazionali, hanno scelto di lasciar cadere un’offerta proveniente dall’acciaiere indiano Sajjan Jindal che men che dimezzava gli attuali livelli occupazionali della ex Lucchini inserendola però in un “sistema” globale che avrebbe puntato sui prodotti di qualità dei laminatoi di Piombino trasferendo altrove nel mondo la produzione del semilavorato. Sarebbe stata indubbiamente una scelta dolorosa, ma avrebbe inserito il polo siderurgico dell’ex Lucchini in un circuito e un gruppo globale come quello di Jindal. Ovviamente si sarebbero dovuto pensare a come creare nuove opportunità di occupazione alla fetta consistente di dipendenti che sarebbe rimasta esclusa dalla chiusura di attività non-competitive sul mercato. Politici e sindacalisti hanno preferito però non affrontare questo problema, optando invece per la soluzione proposta da un signore che aveva fatto la sua fortuna con lo zucchero, i succhi di frutta, i frigoriferi e le concessionarie automobilistiche in un Paese, quale l’Algeria, dove lo Stato governa l’intera economia e le dinamiche di mercato non esistono (vedi intervista con l’analista Fabiani).

Il dilettante dell’acciaio Rebrab non solo prometteva quello che il professionista Jindal non riteneva fattibile, e cioè la produzione del semilavorato a Piombino, prima con la riapertura dell’altoforno poi con l’acquisto di due nuovi forni elettrici, ma prometteva anche forti investimenti in un polo logistico creato attorno al porto e in un polo agro-alimentare. E con quelli sarebbero addirittura arrivati posti di lavoro aggiuntivi.

«Temo che vi sia stata una carenza nella capacità di analisi dei fattori industriali», dice Carlo Mapelli, professore di metallurgia al Politecnico di Torino. «Il piano di Rebrab era a prima vista più allettante dal punto di vista occupazionale, un aspetto certo di primaria importanza. Ma andava approfondita la credibilità di quanto veniva promesso - basti pensare che Rebrab non possiede tuttora la capacità di produrre autonomamente l’acciaio per garantire il regolare funzionamento dei laminatoi - e bisognava ponderare meglio la sua capacità di gestione di complessi siderurgici in mercati moderni e aperti alla concorrenza quali quelli europei. Anche le repentine giravolte operate da Rebrab nella scelta tra altoforno e forno elettrico sono apparse poco rassicuranti. Il gruppo Jindal, a fronte di piani industriali meno roboanti, possiede invece la competenza per operare sul mercato siderurgico internazionale ed è dotato di un significativo apparato logistico in grado di sostenere i prodotti con il marchio Lucchini, conlude Mapelli, quindi sarebbe stato in grado di alimentare i laminato con le proprie acciaierie e in un secondo tempo, forse, avrebbe potuto garantire maggiori sinergie industriali con l’industria meccanica e ferroviaria italiana».

Il massimo dell’ironia è dato dal fatto che Aferpi sta comprando il semilavorato dal gruppo di Jindal. Seppur in modo indiretto. Cioè attraverso un intermediario, il trader internazionale con base a Düsseldorf, Steel Mont GmbH. E, come ammette lo stesso Azzi, questa intermediazione ha ovviamente un costo aggiuntivo. Ma Aferpi non ha scelta, perché non ha il circolante per pagare direttamente Jindal, mentre il trader tedesco sta mettendo a disposizione la sua capacità finanziaria e le sue linee di credito (fornite da banche svizzere). In più accetta di essere pagato a pezzi e bocconi. L’ultimo carico di semi-lavorato arrivato per nave da Jindal, per esempio, è stato scaricato oltre due settimane fa in un molo di Piombino preso in leasing da Steel Mont, ma non ancora tutto preso in consegna da Aferpi perché non interamente pagato.

«Se Aferpi continuasse a non trovare i capitali per comprare tutto il semilavorato necessario, rischierebbe di avere difficoltà nel far fronte agli impegni di produzione di binari per Rfi relativi a una gara che si è aggiudicata a marzo scorso», ci dice una fonte bene informata che chiede l’anonimato.

Azzi nega che ci siano problemi di sorta, sottolineando il fatto che la settimana scorsa la sua società ha vinto un’altra gara per una fornitura di binari a Rfi. Ma la realtà resta che Aferpi non è riuscita ancora a reperire i fondi necessari per mantenere gli impegni su nessuno dei tre fronti su cui s’imperniava il suo progetto. Su quello dell’acciaio ha sì firmato un impegno di acquisto un impianto da circa 200 milioni configurato per una produzione da un milione di tonnellate all’anno, con un singolo forno (e non due come promesso), un treno-rotaie e due colate. Ma finora si è limitata a pagare il potenziale fornitore, la società tedesca Sms, le due quote di un milione e mezzo l’una, previste dall’accordo di studio di fattibilità.

Altrettanto in ritardo sembrano essere le attività sul fronte del polo logistico e di quello agroalimentare (vedi intervista con il Commissario straordinario del Porto di Piombino Guerrieri).

Gli stessi lavoratori si sono resi conto di queste difficoltà. Tanto è vero che i sindacati hanno recentemente manifestato serie preoccupazioni: «Con questi ritardi sull’avviamento del lavoro sono sempre più le ditte dell’indotto che vanno in sofferenza e vedono erodersi il margine di tempo degli ammortizzatori sociali che stanno scadendo», si legge in una loro recente dichiarazione pubblica, che in nessun modo segnala però alcuna autocritica per l’appoggio fornito a un progetto industriale palesemente illusorio. Al contrario, si conferma il supporto a Rebrab. «Abbiamo sempre espresso il nostro giudizio positivo su progetto industriale complessivo, sottolineandone la centralità dopo un lungo periodo di grave incertezza sul futuro di Piombino», si legge infatti nel comunicato, che si chiude chiedendo al Governo «garanzie sull’attività produttiva, la quale necessita di supporto finanziario con il circolante necessario». Insomma, i sindacati domandano al Governo di supplire alle carenze di Rebrab.

Il mese scorso il giornale locale Il Tirreno ha riportato una dichiarazione in cui Fim, Fiom e Uilm annunciavano la propria «soddisfazione» perché «Sace, il braccio operativo della Cassa depositi e prestiti, ha firmato gli atti necessari a garantire 23 milioni di crediti ad Aferpi, che potrà usufruirne per effettuare gli acquisti dei semiprodotti, indispensabili alla ripresa produttiva dei laminatoi e dare quella continuità finora mancata, costringendo i laminatoi a un’attività a singhiozzo».

Il Sole 24 Ore ha contattato Sace e chiesto se ha in alcun modo discusso o deliberato misure creditizie a favore di Aferpi. La risposta del portavoce è stata inequivoca: «La notizia è infondata. Non è vero […] Non è stata fatta alcuna operazione di smobilito di crediti. E non c’è nessuna cosa in ballo. Neanche all’orizzonte».

Questa categoricità si scontra con le parole dell’a.d. di Aferpi: «Sace è sicuramente uno dei soggetti interessati», ci dice Azzi. «In questo istante sta valutando valutazione un’operazione di supporto all’esportazione di rotaie. Per qualche milione di euro. Ma è un lavoro ancora preliminare».

In effetti a il Sole 24 Ore risulta che il ministero per lo Sviluppo economico stia esercitando pressioni su Cassa depositi e prestiti al fine di risolvere i problemi dei finanziamenti o delle garanzie bancarie di Aferpi e che a sua volta Cdp le stia facendo sulla sua controllata Sace, l’agenzia che offre credito all’esportazione.

Avremmo voluto chiedere ragguagli su questo, e sullo stato delle cose a Piombino, al Mise e al Commissario straordinario Piero Nardi, che hanno scelto di dare le chiavi degli impianti ex Lucchini a un imprenditore agroalimentare privo di esperienza nel settore. Ma le nostre richieste non sono state accolte né dall’uno né dall’altro.

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