Economia

Un difficile ma necessario percorso di M&A

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L'Analisi|made in italy

Un difficile ma necessario percorso di M&A

Sono molti gli analisti e i microeconomisti a prevedere, nel breve e medio periodo, un processo di consolidamento del settore del design-legno-arredo italiano. Le ragioni sono in particolare due: da una parte, le aziende del comparto sono quasi tutte eccellenze, hanno una lunga tradizione e sono posizionate nel medio-alto di gamma. Sono quindi “prede” ideali per fondi di private equity o grandi gruppi per il know how unico, per la loro redditività e soprattutto per le prospettive future. Un altro campo in cui infatti gli analisti si esercitano è l’evoluzione dei consumi nei Paesi emersi (Cina in primis) o emergenti.

Dopo l’appetito per la moda, naturale conseguenza del lungo digiuno legato al periodo del comunismo “preconsumistico”, ora l’attenzione si starebbe spostando sul design e sul desiderio di personalizzare le case, dopo averlo fatto con il look. Grandi opportunità di export, quindi, sfruttando, come per l’abbigliamento, il valore aggiunto del made in Italy. E così arriviamo al secondo motivo che potrebbe spingere al consolidamento: le dimensioni delle singole aziende e la difficoltà di affrontare il passaggio generazionale. Anche in questo caso si può fare un paragone con la moda, che però ha una decina di “billion euro companies”, aziende che hanno già superato la soglia del miliardo di fatturato. Non solo: alcune imprese hanno già affrontato il tema della successione del fondatore-imprenditore-manager, scegliendo o la Borsa (esemplari i casi Prada e Ferragamo) o il private equity: è di settimana scorsa la cessione al fondo Sator della quota di maggioranza de L’Autre Chose da parte della famiglia fondatrice, i Boccaccini. Nella moda è invece fallito invece l’esperimento del gruppo, che forse (si vedano gli articoli a fianco) potrebbe invece avere successo nel design. Tra la fine degli anni 90 e i primi del 2000 Patrizio Bertelli provò a costruire un polo del lusso che potesse fare concorrenza ai colossi francesi e svizzeri (Lvmh, Kering e Richemont) e investì Gucci, Jil Sander ed Helmut Lang. Tutti brand che furono poi venduti per concentrarsi su Prada, Miu Miu e sui marchi di calzature Church’s e Car Shoe. Nel design a guardar bene un precedente c’è: nel 2004 il fondo Charme, partendo da Poltrona Frau, cercò di creare un polo acquisendo Cassina, Cappellini, Alias, Gebrueder Thonet e Simon. Salvo poi, anche in questo caso, dismettere tutti i marchi tranne Frau, Cassina e Cappellini e, nel 2014, cedere il gruppo agli americani di Haworth. Sono passati però più di dieci anni e i tempi sembrano maturi per creare gruppi con una struttura diversa da quella dei colossi della moda, dove i brand spesso si sovrappongono (non a caso Lvmh e Kering hanno iniziato a razionalizzare il portafoglio, con le recenti vendite di Donna Karan e Sergio Rossi). La soluzione per il design potrebbe essere di aggregare, in una logica industriale prima che finanziaria, realtà piccole ma iper-specializzate, perché piccolo non è così bello per competere ai tempi della globalizzazione. I segnali, nonostante l’incertezza dell’economia , ci sono tutti.

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