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Quando i dipendenti salvano l’azienda: sempre più casi in Italia

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Quando i dipendenti salvano l’azienda: sempre più casi in Italia

(Imagoeconomica)
(Imagoeconomica)

Una cinquantina di imprese salvate negli ultimi cinque anni, per 1.200 posti di lavoro e 178 milioni di euro di giro d’affari rimasti sul mercato. Società di capitali che diventano cooperative; dipendenti che si cimentano nel ruolo di imprenditori; competenze, know-how e patrimoni che sopravvivono a fallimenti e liquidazioni aziendali. Questo l’identikit dei workers buyout in Italia, operazioni nate e diffuse negli Usa soprattutto attraverso l’intervento dei fondi pensione e che da noi, sebbene ancora non spostino volumi significativi, stanno prendendo piede come risposta al boom di procedure concorsuali e all’emergenza occupazionale. E la condivisione del rischio tra chi apporta saperi e mestieri sembra essere l’antidoto alla latitanza di investitori e banche.

Istituzionalizzati dalla legge Marcora con la legge 49/85 (poi rivista nel 2001 per aggirare i problemi legati agli aiuti di Stato) di riflesso al crac della Richard Ginori, i salvataggi di aziende in chiusura per mano dei loro lavoratori sono stati circa 300 in questi 31 anni di storia. Trecento realtà consolidate rimesse sul mercato in queste tre decadi e 15mila lavoratori-soci che hanno mantenuto il posto di lavoro. Finanziandosi prioritariamente con l’anticipazione dell’indennità di mobilità, oltre che con i propri risparmi, e supportati dall’investitore istituzionale cooperativo Cfi (Cooperazione Finanza impresa). Con un beneficio economico per la collettività che va oltre la salvaguardia occupazionale.

IL QUADRO
Numero di working buyout tra 2011 e 2015, numero di addetti e di fatturato coinvolti. (Fonte: elaborazione su dati CFI)

«La legge Marcora ha costo zero per lo Stato, anzi lo Stato ci guadagna perché non paga mobilità e oneri figurativi e previdenziali a lavoratori, che non finiscono in Cig ma mantengono la dignità del lavoro e pagano Irpef e Iva. Per ogni milione impiegato nella capitalizzazione di un working buyout (Wbo), la collettività rientra di almeno 3 milioni in tre anni, secondo i calcoli più prudenziali», spiega Maurizio De Santis, responsabile nazionale Cooperative industriali di Ancpl e consigliere di Cfi, la società promossa da Agci, Legacoop e Confcooperative partecipata da 270 imprese oltre che da Mise (entrato con 100 milioni di euro come socio sovventore) per accompagnare i workers buyout.

Cfi ha praticamente raddoppiato il numero di interventi deliberati dal 2013 a oggi. «E tra 2007 e 2014, conti alla mano, gli investimenti veicolati da Cfi hanno generato un ritorno economico per lo Stato pari a 6,8 volte il capitale impiegato: con 84 milioni di capitale di rotazione gestito da Cfi, sono ritornati alla collettività 576 milioni di euro tra dividendi, interessi attivi, oneri sociali, Irpef e imposte versati dalle coop», sottolinea De Santis.

Se nei primi anni Novanta sono stati soprattutto Toscana, Marche e Veneto a esprimere i casi più interessanti di Pmi salvate da lavoratori-imprenditori, oggi è l’Emilia-Romagna il territorio più prolifico di Wbo, con 16 coop nate nell’ultimo lustro per 386 posti di lavoro e 72 milioni di ricchezza messi in salvo. Ad accelerare il fenomeno è stata la crisi ma anche la nuova impostazione della legge Marcora che ha armonizzato – in logica di mercato – il passaggio da società di capitali a newcoop, con un ridimensionamento dell’aiuto diretto di Cfi (interviene al massimo in misura pari al finanziamento apportato dai soci-lavoratori e non più tre volte tanto e a termine). Il passaggio-salvataggio dei working buyout comporta in media un dimezzamento della società di capitali e chi si rimette in gioco da lavoratore a imprenditore (le coop degli ex dipendenti hanno diritto di prelazione nelle procedure fallimentari) scommette attorno ai 12-15mila euro a testa, «e considerando che in media negli ultimi anni si sono costituite coop di una cinquantina di addetti e che il capitale da loro versato è poi raddoppiato da Cfi, si arriva a livelli di capitalizzazione superiori al milione di euro, che sono un’eccellenza in Italia», nota De Santis.

I Wbo funzionano anche per la trasmissione di impresa in bonis (non per chiusure ma per semplici cessioni di proprietà), ma si tratti di incidenze minime, che non arrivano al 5% del totale, anche se potrebbero essere un’ottima alternativa ai passaggi generazionali difficili, «perché non è il modello cooperativo o capitalistico a fare la differenza sul mercato – aggiunge il manager – ma la presenza di una strategia industriale chiara e di competenze e know-how che sono custoditi dalle risorse umane». Tra questi pochi casi c’è la coop Arbizzi di Reggio Emilia, nata nel luglio 2014 quando il titolare Emilio Arbizzi ha deciso di farsi da parte e di comune accordo con i dipendenti, tutti collaudati, ha deciso di cedere loro la proprietà dell’azienda di materiali per imballaggi, oggi guidata da 17 ex dipendenti, che hanno investito 5mila euro a testa e hanno garantito al business di continuare a crescere (9,2 milioni di fatturato 2015).

Arbizzi è una delle 56 cooperative nate dai lavoratori in Emilia-Romagna che hanno salvato 1.200 posti di lavoro con la legge Marcora, regione dove l’attenzione delle istituzioni per il fenomeno Wbo si è alzata con l’obiettivo di accelerarne la diffusione, in una terra dove già oggi 13 aziende ogni mille sono coop e 15 addetti ogni 100 lavorano per le coop e dove il Patto per il lavoro ha messo al centro delle strategie regionali la “società imprenditiva, equa e inclusiva”.

«Stiamo costruendo un portale dei Wbo, come abbiamo fatto per le start up – afferma l’assessore regionale alle Attività produttive dell’Emilia-Romagna, Palma Costi – dove cercheremo di collegare tutti i soggetti che cooperano alla realizzazione dei Wbo per trovare strumenti, indirizzi e opportunità in rete in tempi rapidissimi. Perché il fattore tempo è cruciale per non perdere competenze e mercato nelle crisi di impresa. Le procedure concorsuali sono in questo senso troppo lunghe. Servono tutoraggio e supporto a business plan, credito e riqualificazione e formazione per accelerare gli iter dei workers buyout».

«Anche altre regioni si stanno muovendo – aggiunge De Santis – in particolare al Sud, tra la Campania che ha introdotto un fondo rotativo per il Wbo, la Basilicata che ha avviato un progetto di legge ad hoc e la Calabria che sta partendo ora con un meccanismo molto efficace di utilizzo dei fondi europei per finanziare le coop di lavoratori con un sistema di voucher assimilati ai ristorni».

A settembre sarà il turno del petrolchimico di Porto Torres, che grazie alla coop creata dai lavoratori Turris Sleeve – unica riconversione riuscita del polo sardo - inaugurerà il primo stabilimento in Europa delle fascette per le bottiglie (si veda altro articolo in pagina). «Si parla di 700mila posti di lavoro a rischio in Europa nei prossimi quattro anni, di cui 70-100mila in Italia – afferma Giorgio Prodi, ricercatore di Economia applicata all’Università di Ferrara e membro della Consulta della cooperazione – e i Wbo possono costituire una modalità per rispondere all’emergenza occupazionale e sviluppare opportunità. Come strumento di passaggio per superare attraverso la condivisione del rischio una fase di grande incertezza come l’attuale dove la sharing economy sta dimostrando tutta la sua forza».

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