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Dalle bonifiche dei siti inquinati benefici per il Pil

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Dalle bonifiche dei siti inquinati benefici per il Pil

Porto Marghera (Imagoeconomica)
Porto Marghera (Imagoeconomica)

Se si decidesse (finalmente!) di disinquinare davvero e in modo definitivo i 38 siti di interesse nazionale — cioè i luoghi più contaminati d’Italia — il beneficio sarebbe non solamente per la salute dei cittadini e per la ricchezza dell’ambiente. Il beneficio sarebbe anche per il Pil, per l’economia, per la ricchezza (questa sì economica) che verrebbe generata.

Ecco le cifre approssimate dell’economia dell’ambiente: se il sistema pubblico investisse 10 miliardi in 5 anni per decondaminare i posti inquinatissimi avrebbe un ritorno fiscale tra Iva e imposte varie di quasi 5 miliardi (rientrerebbe metà della spesa), genererebbe investimenti privati per altri 20 miliardi, produrrebbe un valore aggiunto sui 10 miliardi, darebbe lavoro a 200mila persone. E migliorerebbe di circa lo 0,1% quella crescita del Pil italiano che oggi fatica a misurarsi in zerovirgola.

LA MAPPA DEI SITI INQUINANTI
I siti di interesse nazionale e la loro estensione in ettari. (Fonte: Confindustria)

L’altro giorno a Ferrara durante la rassegna RemTech si sono svolti gli “stati generali delle bonifiche dei siti contaminati” nei quali Claudio Andrea Gemme, presidente del comitato Industria e Ambiente di Confindustria, ha illustrato lo studio «Dalla bonifica alla reindustrializzazione», un documento di analisi, criticità, proposte.

Dice Gemme: «Voglio sfatare un credo sbagliato che immagina l’industria italiana come quel complesso di aziende insensibili alla domanda crescente di sostenibilità». Di fronte a tanti paladini dell’ambiente solamente a parole, è stata l’industria a superare tutti per capacità di ridurre le emissioni scaldaclima (-43,2% per l’industria manifatturiera e -16,5% per l’industria energetica).

Ecco le cifre esatte dell’economia dell’ambiente: «Il costo per il Paese di un piano di risanamento complessivo di 5 anni comporterebbe un investimento di circa 9,7 miliardi di euro tra aree private (6,6 miliardi) e pubbliche (3,1 miliardi). Gli effetti di questo investimento determinerebbero nel periodo considerato — dice Gemme — un incremento della produzione industriale di un valore superiore ai 20 miliardi di euro, ovvero una variazione media annua dello 0,13% ed un incremento del valore aggiunto nazionale di oltre 10 miliardi di euro, ovvero una variazione media annua circa del 0,14% per 5 anni».

Lo studio aggiorna un precedente contributo del 2009 e analizza il quadro normativo e regolamentare, confronta le tecnologie usate in Italia per risanare, delinea gli impatti socio-economici e dà spunti di riflessione per rafforzare le politiche ambientali.

Emerge per esempio che la complessità burocratica, la miopia delle procure, l’arroganza dei comitati nimby, la pavidità di funzionari e la mordacità di politici paralizzano innumerevoli processi di risanamento e annullano il lavoro di chi, nelle istituzioni o nelle imprese, lavora per decontaminare.

Un esempio? In quasi il 40% dei casi la “tecnologia” di disinquinamento è la ruspa: cioè si scava il terreno contaminato e lo si trasferisce in una discarica. Si scava un buco per riempirne un altro. Il beneficio ambientale è impercettibile, il costo è più alto rispetto alle tecnologie più serie, ma è il modo di “risanare” che viene più facilmente accettato dai sedicenti difensori dell’ambiente.

Accade anche, come ha osservato a Venezia all’evento internazionale Watec il relatore d’apertura, Corrado Clini, con il disinquinamento mai concluso di Marghera: «Ci sono ancora fondi statali non erogati, non si è andati fino in fondo a sfruttare le procedure semplificate varate nel 2012. Manca una regìa; il soggetto giusto per coordinare un nuovo inizio su bonifiche e marginamenti sarebbe la Città metropolitana».

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