
Se del fatturato di 43 miliardi di dollari delle aziende che producono materie prime farmaceutiche, il 10% viene realizzato in Italia e il settore cresce, un motivo ci sarà. La qualità, risponde il presidente di Aschimfarma, Gian Mario Baccalini. Allo stesso modo la pensa il professor Luca Pani, direttore generale dell’Aifa, così come il vicepresidente di Farmindustria Francesco De Santis. Fin qui si potrebbe dire che si tratta di opinioni autorevoli ma “di parte”.
Se a dirlo, però, è un manager di una big pharma come Regan Shea, senior vice president chemical and biological operations della multinazionale americana Gilead, allora l’opinione diventa “di mercato”.
(Fonte: Istat)

Al forum organizzato ieri da Aschimfarma a Milano, Shea ha spiegato che «la qualità, l’expertise tecnica, i costi e la gestione delle imprese sono le ragioni per cui oggi molte delle aziende da cui acquistiamo materie prime farmaceutiche sono basate in Italia», lasciando intendere che gli approvvigionamenti dall’Asia si stanno ridimensionando.
Dallo studio realizzato da Giampaolo Vitali, economista d’impresa e docente dell’Università di Torino, si vede che la quota di export italiano è molto elevata, pari all’85%. Dal 2008 ad oggi c’è stata una vera e propria impennata e questo è dovuto non tanto al fatto che c’è stata una ricerca forte di nuovi mercati, ma al fatto che «le big pharma vengono a cercare le imprese italiane», dice Vitali. Il personale dedicato alla Ricerca e Sviluppo è più che doppio rispetto alla media manifatturiera e il costo del lavoro pro-capite supera del 50% la media manifatturiera, «a dimostrazione della migliore qualificazione e professionalità del personale, ma anche della capacità di offrire anche in futuro opportunità di lavoro alle giovani generazioni», aggiunge Vitali. Non solo.
Con riferimento all’Italia Baccalini spiega che le big pharma sono tornate a preferirci perché «ciò che importa non è soltanto il prezzo del principio. Oggi più che mai conta il profilo di purezza, il timing, il package, l’innovazione. Le aziende italiane sono molto apprezzate perché possono dire questo principio te lo do e ti dico come lo ho fatto, te lo fornisco con questo grado di purezza e in questo package». Per arrivare a questo risultato c’è stato un grande lavoro su molti fronti e una parte del merito viene riconosciuta anche all’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco che è competente per l’attività regolatoria in Italia. «Anche le nostre istituzioni hanno vinto la scommessa della competitività - osserva Baccalini - privilegiando la qualità come elemento strategico per la tutela della salute e la crescita industriale del settore chimico farmaceutico. L’assunzione di questa strategia da parte dell’Agenzia italiana del farmaco Aifa ha favorito il mantenimento e il miglioramento degli standard qualitativi dei produttori italiani di principi attivi farmaceutici nei confronti della competizione mondiale». Il risultato di questa politica è che «dopo la fase di passaggio verso il mercato asiatico, le big pharma tornano a rivolgersi ai produttori italiani perché questi possono garantire maggiore qualità e rigore dal punto di vista scientifico», dice Pani.
Per quanto positivo sia il quadro emerso ieri, non si può negare che vi sia molto lavoro da fare ancora. Se le imprese hanno vinto la sfida della globalizzazione e del cambiamento tecnologico tuttavia l’eccesso di burocrazia interferisce ancora con le politiche industriali, creando lentezza negli adempimenti e soprattutto incertezza, dovuta a interpretazioni non univoche e poco chiare delle normative vigenti. Il settore ha bisogno di tempi rapidi e certi e volgendo lo sguardo fuori dai confini, suggerisce Baccalini, «bisognerebbe mettersi d’accordo affinché le ispezioni che si fanno in Cina, per esempio, siano come quelle che si fanno in Italia».
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