Economia

«La dimensione d’azienda non è un discrimine di…

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L’ECONOMISTA

«La dimensione d’azienda non è un discrimine di competitività»

«L’Emilia-Romagna 4.0 sarà una regione con un quarto della popolazione di nazionalità straniera (oggi è il 14%), un terzo anziana (oggi è il 23%) e dove il lavoro dovrà fare i conti sia con i robot, che sostituiranno almeno il 10% delle mansioni che conosciamo oggi, anche se c’è chi stima si arriverà al 50%, sia con il depauperamento innescato dal capitalismo delle piattaforme». È un’economia tutt’altro che rassicurante quella che prevede tra trent’anni il direttore del Centro studi regionale Unioncamere, Guido Caselli, descritta nel rapporto-check-up condotto a fine 2016.

L’ecosistema della via Emilia, che sta facendo scuola in Europa per capacità di contemperare coesione e competizione, rischia di essere spazzato via dalla quarta rivoluzione industriale?
L’organizzarsi della società attorno a marketplace come Alibaba, Amazon, Uber porterà alla diffusione di lavoro on demand senza tutele. Rischiamo di tornare a scenari ottocenteschi dove i lavoratori affolleranno non più il molo per scaricare le navi arrivate al porto ma il portale virtuale che commissionerà consegne. E i lavoratori a cottimo si dovranno pure far carico del rischio di impresa, perché risponderanno della soddisfazione del cliente per la piattaforma, responsabile invece solo della propria efficienza.

Non è uno scenario catastrofista?
Il mio intento è stimolare il sistema territoriale a domandarsi come vuole diventare di fronte ai cambiamenti rapidissimi e globali in atto, per salvaguardare resilienza delle imprese e realizzazione delle persone. Le medie statistiche che noi economisti elaboriamo sono sempre meno abili nel descrivere realtà e scenari. Se analizziamo gli ultimi sette anni di recessione, in regione, senza partire dal dato medio, si vede chiaramente che diversi assunti non sono più validi: né la dimensione di impresa né il settore di attività spiegano perché imprese manifatturiere entrate nella crisi nelle medesime condizioni di salute sono uscite in condizioni opposte, alcune morte e altre in forma smagliante.

Sta dicendo che la dimensione non è un fattore critico?
La quota di imprese sane (o resilienti) tra le società con meno di 10 addetti è del 28%, superiore al 20% di resilienza delle imprese con più di 50 addetti. Un risultato ottenuto studiando i bilanci di 15.800 società manifatturiere attive in regione nel 2008: 4.300 di queste, ossia 3 su 10, oggi sono sparite; le altre 11.500 sono attive, ma la metà (8.500) sono in difficoltà, e appena due su dieci hanno ripreso un percorso di crescita. E questo dato non è correlato alle dimensioni di impresa.

Che cosa determina, allora, lo stato di salute di un’organizzazione di uomini e mezzi?
Il check-up fatto sulle 15.800 aziende ci dice che sta bene l’impresa, piccola o grande che sia, che ha investito su internazionalizzazione e R&S e si è garantita autonomia finanziaria e produttiva. Le aziende resilienti hanno aumentato l’export del 42,4% tra 2008 e 2015, quelle vulnerabili hanno perso oltre il 30%. Il 65% delle resilienti ha investito in impianti, macchinari, attrezzature contro il 33% delle vulnerabili. Così come le imprese sane hanno aumentato il patrimonio netto, riducendo la dipendenza finanziaria da terzi e hanno prodotto internamente, non esternalizzato, acquistando materie prime e semilavorati. Infine, le imprese resilienti hanno un costo del lavoro superiore alle vulnerabili, a conferma che non è sul costo delle risorse umane che si gioca la competitività.

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