«Il percorso verso l’integrità e la sostenibilità è oggi una precondizione dell’essere impresa. E sul lungo periodo non è tanto un driver comunicativo quanto un driver competitivo. Se un’azienda vuole essere una vera azienda non può non avere una cultura d’impresa su trasparenza ed anti-corruzione». Era il 13 ottobre 2016 e Marina Migliorato, Head of sustainability, innovation and stakeholder engagement di Enel, introduceva con queste parole il suo intervento al Business integrity forum di Transparency International Italia.
In quell’occasione veniva presentato il Pmi Business integrity kit, un insieme di strumenti di integrità aziendale per piccole e medie imprese realizzato, sulla scorta di quanto già fatto negli altri Paesi nell’ultimo anno, da 13 aziende (Assicurazioni Generali, Edison, Enel, Falck Renewables, Italcementi Group, Luxottica, Pirelli, Telecom Italia, Terna, Kpmg, Salini Impregilo, Snam, Vodafone), guidate appunto da Transparency. Il senso di questa esperienza è stato chiaramente etico, ma soprattutto economico. Ovvero la messa a sistema della consapevolezza che l’esercizio delle prassi anticorruzione è uno strumento per la crescita economica, sempre più premiato dagli stakeholder (i portatori di interesse: clienti, investitori, fornitori, dipendenti, le comunità di appartenenza). In qualche modo l’evoluzione di quanto idealmente seminato con la diffusione del rating di legalità introdotto, lo ricordiamo, da un Regolamento deliberato nel 2012 dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato(AGCM) in raccordo con i ministeri della Giustizia e dell’Interno.
Si tratta dunque di una consapevolezza che comincia ad essere sempre più diffusa, come testimoniato dall’interesse delle aziende per le certificazioni che attestano questo genere di impegno: l’ultima in ordine cronologico è Terna, che lo scorso primo febbraio ha ottenuto da IMQ la prima certificazione per il sistema di gestione per la prevenzione della corruzione secondo la norma internazionale Uni Iso 37001. Va esattamente in questa direzione anche il decreto legislativo 30 dicembre 2016, n. 254, relativo all’attuazione della Direttiva 2014/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2014, recante modifica alla direttiva 2013/34/UE «per quanto riguarda la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni». Pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 10 gennaio, il provvedimento è entrato in vigore e le sue disposizioni si applicheranno agli esercizi finanziari a partire dal primo gennaio 2017.
Questo decreto, ricordiamolo, prevede che: «Le società saranno tenute a rendere pubbliche le informazioni sulle politiche adottate e i risultati ottenuti in materia ambientale e sociale, nonché quelle attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani e alla lotta contro la corruzione, sia attiva sia passiva».
La materia delle tutele diventa quindi elemento di valutazione della “salute” aziendale e di competitività, al pari dei dati finanziari, discrimine per gli investitori. E tra questi elementi viene riconosciuto il contrasto alla corruzione. L’articolo 3 spiega infatti che: «La dichiarazione individuale di carattere non finanziario, nella misura necessaria ad assicurare la comprensione dell’attività di impresa, del suo andamento, dei suoi risultati e dell’impatto dalla stessa prodotta, copre i temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva, che sono rilevanti tenuto conto delle attività e delle caratteristiche dell’impresa». Poi elenca i contenuti e al comma “f”, indica: «Lotta contro la corruzione sia attiva sia passiva, con indicazione degli strumenti a tal fine adottati».
Vanno nella medesima direzione le nuove direttive per Esg reporting pubblicate da London Stock Exchange Group, sotto il cui cappello opera la Borsa italiana. L’attivismo dei normatori europei e dei regolamentatori inglesi rappresenta un segnale importante soprattutto per un Paese opaco come l’Italia, che si colloca al sessantesimo posto nel mondo secondo la classifica di Transparency International per diffusione della corruzione.
Dopo l’esperienza sviluppata dall’Autorità nazionale anti-corruzione (l’Anac) le prassi di legalità si diffondono dunque dalla pubblica amministrazione anche nelle imprese private. Sebbene resti ancora bloccata da quasi un anno al Senato la proposta di legge sui whistleblower. Letteralmente il “soffiatore nel fischietto” (riguarda sia il settore pubblico che quello privato) è colui che durante l’attività lavorativa all’interno di un’azienda, rileva una possibile frode, un pericolo o un altro serio rischio che possa danneggiare clienti, colleghi, azionisti, o la stessa reputazione dell’impresa stessa.
Attraverso il sistema Alac, realizzato da Transparency International sono già transitate circa 260 segnalazioni: Alac è infatti il sistema sviluppato dall’ente non governativo in Italia, che permette a chiunque di segnalare illeciti in ogni comparto della pubblica amministrazione. E il numero potrebbe presto salire in presenza di una normativa ad hoc che tuteli il whistleblower.
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