Antonio Citterio, nato a Meda nel 1950, è un architetto (con lo studio Antonio Citterio Patricia Viel) e designer: «Lavoro sulle esigenze che partono dai nostri progetti, dai nostri grattacieli residenziali. Nel segno della storia milanese e del successo del furniture design italiano, raggiunto grazie ad architetti che facevano design». Ha vinto due Compassi d'oro. Tra i vari marchi con cui ha collaborato: B&B Italia, Arclinea, Kartell, Vitra.
Che cosa porta al Salone quest'anno?
«Vitra presenta una nuova collezione di imbottiti. In realtà il processo produttivo dura anni: non siamo legati al Salone, che è forte dal punto di vista della comunicazione. L'obiettivo non è creare pezzi stagionali, come la moda, ma senza tempo. In realtà il furniture design non è più una questione di disegno del prodotto ma di come noi pensiamo l'abitare».
Come sta cambiando questo concetto?
«Stiamo lavorando a un grattacielo a Bangkok: 1.200 appartamenti da 40 metri quadrati in cui le parti private sono camere e quelle della convivialità sono comuni. È un nuovo modello. Siamo abituati a pensare la casa come un luogo dove si abita per 50 anni, dove si trasmette la memoria. Oggi invece si restringe o si allarga a seconda dei membri della famiglia. E gli appartamenti minimi vogliono prodotti minimi: la cucina diventa una show kitchen. Come quella che ho disegnato per Arclinea: è un soggiorno dove puoi anche cucinare».
Quali sono le nuove tipologie abitative?
«Gli appartamenti con servizio, nati in America e oggi sempre più orientali. O gli alberghi con le residenze. In Cina e in Sudamerica la gente si sposta dalle campagne nelle megalopoli. È lì che si creano i nuovi modelli abitativi: si condividono parti di abitazione. Che è più interessante del fatto di non conoscere il proprio vicino di pianerottolo come succede da noi».
Come è cambiata l'industria del design?
«È diventata meno sperimentale perché sappiamo perfettamente quello di cui abbiamo bisogno. Invece, negli anni 60 e 70, si facevano ricerche su modelli di vita mai visti. Idee di modernità, di futuro, poi sovvertite».
Che cosa pensa del Made in Italy?
«Che sta andando bene, per il tipo di modello industriale che rappresenta, cioè di produzione per la fascia alta del mercato. Non abbiamo altra chance. Non possiamo competere con uno stampo fatto in Vietnam che costa un quarto di quello europeo».
Che cos'è per lei il design?
«È qualcosa legato alla vita, una storia di persone, una squadra che fa e disfa, magari per 50 anni, in cui si raccontano cose e si danno risposte. È una storia di relazioni».
Come il divano Grand Sofà disegnato per Vitra: una novità del Salone per un sodalizio che dura da 25 anni.
«Tra me e Rolf Fehlbaum (figlio del fondatore di Vitra Willi, ndr) c'è un rapporto eccezionale: quasi non si sa più chi sia il designer e chi l'industriale. Quando lavoriamo a un progetto parliamo della nostra visione, non di marketing. Poi magari si vende anche. Ma guardando ai nostri possibili bisogni, ci raccontiamo una cosa che non c'è e che vorremmo fare. Naturalmente partendo dalla connotazione dell'azienda: un divano Vitra deve essere semplice, tecnologico, ovviamente: senza tempo».
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