Una letteratura tra le più fiorenti in economia si occupa di polarizzazione del lavoro verso i servizi a basso salario e della generale stagnazione dei redditi medi. In seguito ai cambiamenti tecnologici e alla globalizzazione è ormai noto che i nuovi lavori si spostano sempre più verso i servizi alla persona (tendenzialmente a basso reddito) e verso le tecnologie più avanzate, lasciando indietro invece i mestieri tradizionali della classe media che sono più facilmente sostituibili dai computer o da servizi importati. Così uno studio recente sulla polarizzazione dei redditi in Europa a cura dell'agenzia europea EuroFound ha mostrato che gran parte dei nuovi posti di lavoro creati in questi anni ha retribuzioni basse. Il rapporto analizza un problema ben noto e comune a molti paesi europei (e anche gli USA dove questa letteratura è nata) ma mette in evidenza le particolari difficoltà dell'Italia nel creare buoni lavori ad alto reddito.
Ci si potrebbe allora chiedere se il Jobs Act – nelle sue due caratteristiche principali di aver contemporaneamente ridotto i costi di licenziamento e di aver tagliato i costi del lavoro per i nuovi assunti nel 2015 e 2016- abbia contribuito a creare posti di lavoro a basso reddito o abbia invece contrastato questa tendenza. È ormai noto che in tre anni il numero degli occupati è aumentato di quasi un milione di unità (821 mila per la precisione ma un milione al netto dell'andamento demografico), di cui più di mezzo milione a tempo indeterminato (per la precisione 553 mila); ma questi nuovi contratti sono a basso reddito o ad alto reddito? I dati raccolti dall'INPS sulle retribuzioni dei nuovi assunti e riportati in tabella ci aiutano a rispondere: i questi anni i salari medi dei nuovi assunti a tempo indeterminato (l'unico contratto su cui ha agito il Jobs Act) sono aumentati da circa 1900 euro mensili lordi del 2013 e del 2014 a 2050 euro lordi circa nel primo semestre del 2017. I salari medi delle nuove assunzioni a termine, degli apprendisti e degli stagionali sono invece rimasti pressoché stabili.
Lo stesso vale per la distribuzione delle retribuzioni: la percentuale di retribuzioni lorde medie dei nuovi assunti a tempo indeterminato al di sotto dei 1500 euro lordi è diminuita dal 40% circa del 2013 e del 2014 al 35.7% del 2016 e 33.6% del 2017; nello stesso periodo la percentuale di retribuzioni lorde al di sopra dei 2000 euro mensili lordi è aumentata dal 27% al 31.5%.
In conclusione il lavoro di Eurofound mette in evidenza un problema strutturale dell'Italia: creiamo occupazione nei servizi a basso reddito più che nella manifattura e nella tecnologia ma questo avviene da tempo e non ha nulla a che fare col Jobs Act ma piuttosto con la specializzazione produttiva dell'Italia. Anzi, proprio i contratti a tempo indeterminato avviati dal 2015 in poi con le nuove regole del Jobs Act sono gli unici contratti che hanno visto salari crescenti piuttosto che stagnanti.
La spiegazione è la seguente. Gli effetti della riforma del mercato del lavoro sui salari possono essere di due tipi: se una legge riduce i costi di licenziamento di un lavoratore già occupato, si riduce anche il suo potere contrattuale e con questo anche potenzialmente suo salario; ma se si riducono i costi di licenziamento solo per i nuovi contratti (come ha fatto il Jobs Act) i lavoratori che non sono ancora occupati ma stanno cercando un'occupazione potranno concordare un salario più alto a fronte della riduzione della protezione contro il licenziamento. Questo è tanto più vero quanto più le nuove assunzioni a tempo indeterminato del Jobs Act sono avvenute con una decontribuzione per il datore di lavoro che potenzialmente si può traslare in un salario più alto per il lavoratore.
Questi numeri fanno ben sperare anche per la decontribuzione futura per i giovani. Un altro problema fondamentale dell'Italia che la distingue in negativo da altri paesi europei è il basso salario d'ingresso dei giovani lavoratori. I giovani italiani secondo uno studio importante di Banca d'Italia entrano nel mercato del lavoro con un salario molto più basso del salario medio degli adulti e nel tempo la situazione è andata peggiorando: dagli anni '90 in poi la distanza tra salari d'ingresso e salari medi è aumentata. I numeri di cui sopra mostrano che una decontribuzione può garantire non solo un contratto di lavoro a tempo indeterminato stabile ma anche maggiore salario. Garantisce un maggiore salario anche se la decontribuzione avviene tutta dal lato dei contributi del datore di lavoro (come quella al 100% del 2015 e del 40% del 2016), perché parte di quel vantaggio si trasforma in maggiore salario anche per il lavoratore. Il taglio dei contributi è permanente nel senso che ogni anno i giovani neo-assunti avrebbero uno sconto contributivo del 50% per i primi tre anni, ma il fatto che lo sconto duri tre anni rende impossibile il taglio dei contributi sul lato del lavoratore: in quel caso infatti alla fine del triennio e al riprendere del normale tasso di contribuzione in capo al lavoratore si verificherebbe un calo del salario netto.
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