Il sistema industriale sorregge il Paese. Nonostante il Paese. La produzione industriale in crescita tendenziale a luglio – secondo l’Istat – del 4,4% è un fenomeno graduale e costante. La persistenza di questo dinamismo manifatturiero si coglie meglio abbandonando la dimensione microtemporale: il singolo mese e la scansione periodica dei dati a cui tutti sono aggrappati, viste le condizioni generali del Paese. Questo orizzonte maggiore raffredda il cuore semplice degli ottimisti e riduce a più miti consigli gli apocalittici per i quali l’Italia di oggi si trova in un tunnel al cui fondo si vede la luce, che però è il fanale acceso di un treno. Fra il gennaio e il luglio di quest’anno la produzione industriale – con i dati corretti per gli effetti del calendario – è aumentata del 2,6% rispetto allo stesso periodo del 2016. Si tratta di una crescita spinta dal polo petrolifero – incardinato sull’Eni – che ha visto la produzione industriale salire del 3,7% e dal polo dell’auto – basato sugli impianti italiani di Fca – che ha fatto segnare un + 6,1 per cento. In un contesto segnato dall’insterilirsi del seme della grande impresa, con la fine del paradigma novecentesco delle famiglie storiche del capitalismo italiano e dell’economia pubblica di matrice Iri, i dati rilevati dall’Istat nei primi sette mesi dell’anno mostrano la vitalità di alcuni comparti basati sulle piccole e sulle medie imprese. Senza indulgere in ragionierismi settoriali, appare interessante rilevare come l’Italia caleidoscopio – formata da una miscela di attività differenti, di territori disomogenei e di realtà economico sociali eterogenee – esprima una crescita tendenziale pari al 2,2% per l’agroalimentare, al 2,8% per la chimica, al 6,2% per la farmaceutica e al 2% della fabbricazione dei macchinari. Per dare profondità a questi risultati, è utile il lavoro compiuto dagli economisti dell’Istat con la definizione dell’indice generale della produzione industriale, con base 100 punti al 2010 e con i dati corretti per gli effetti del calendario, l’annus horribilis in cui l’Italia ha iniziato a rotolare, dopo lo shock del 2008. Questo indice generale è stato pari nel 2015 a 92,3 punti e, nel 2016, a 93,9 punti. Ad aprile di quest’anno era ancora fermo a 93,1 punti. A maggio si è verificato il primo grande balzo: è salito a 103,1 punti. A giugno è ridisceso a 101 punti. A luglio è cresciuto a 110,9 punti. La realtà non è mistificabile. Il nostro sistema industriale è ancora troppo segnato dall’infelice binomio 20-80: il 20% delle imprese produce l’80% del valore aggiunto nazionale e l’80% dell'export. Esiste un indubbio tema di acefalia, dato dallo spostarsi all’estero dei quartieri generali delle aziende passate sotto il controllo straniero. C’è il rischio di una élite industriale apolide, connessa ai mercati globali ma con pochi rapporti con il resto del Paese. Tutto vero. Ma è altrettanto vero che, nella serie storica dell’Istat, l’indice generale della produzione industriale – calcolato con base 2010 – non è mai stato così alto.
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