La compensazione tra l’arretramento del welfare pubblico, ormai parte della nostra quotidianità, e l’avanzamento del welfare privato arriva, in parte, sul fronte fiscale. E cerca un suo spazio tra le righe delle 5P (persone, pace, pianeta, prosperità, partnership) che sono state indicate nella Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, in fase di approvazione. Da qualunque angolatura si affronti il tema del welfare, il nodo delle risorse è quello più difficile da sciogliere e si intreccia sempre con quello della sostenibilità. Tutti gli attori, dai corpi intermedi fino ai politici, quando si avvicinano al welfare sanno bene che il conto di qualsiasi iniziativa è sempre molto salato e quindi prima ancora di discuterla ci sono due ragionamenti che devono scorrere paralleli: il primo riguarda l’utilità sociale, il secondo la sostenibilità in termini economici.
L’attivismo di imprese, sindacati e politici per poter portare al mulino dei lavoratori un risultato che vada al di là del denaro si misura in numerosi accordi. A diversi livelli. In molti contratti collettivi nazionali di lavoro le imprese, d’intesa con i sindacati, hanno deciso di investire sulla sanità integrativa e sulla previdenza complementare, visto che con l’allungamento dell’età pensionabile, salute e sicurezza economica sono diventati una preoccupazione per i lavoratori. Ci hanno pensato categorie come chimica, farmaceutica, meccanica, tessile, gomma plastica, solo per citare l’inizio di un lungo elenco.
Passando dal livello nazionale a quello aziendale e territoriale parlano chiaro gli accordi sui premi di produttività. Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero del Lavoro in settembre, sono 25.658 i contratti aziendali e territoriali depositati; la grande maggioranza si riferisce a contratti aziendali mentre sono 2.319 i contratti territoriali. Entrando nel merito dei contenuti delle intese attive nel 2017, 10.209 si propongono di raggiungere obiettivi di produttività, 7.413 di redditività, 6.188 di qualità, mentre 1.740 prevedono un piano di partecipazione e 4.024 prevedono misure di welfare aziendale. Il meccanismo che questi accordi hanno sviluppato, allo stato attuale, appare molto virtuoso. Non si può dimenticare il ruolo del decreto interministeriale (in attuazione della norma contenuta nella legge di Stabilità 2016), che prevede una tassazione agevolata con imposta sostitutiva del 10% per i premi di risultato (con limiti per il premio e per il reddito), e per le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa e che prevede inoltre che l’eventuale scelta del lavoratore di convertire premi di risultato agevolati nei benefit ricompresi nel welfare aziendale comporti una detassazione completa. Tutto questo però a fronte di risultati oggettivi. Di qui la forte attenzione ai criteri di misurazione degli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione. Sulla detassazione del welfare le parti sociali hanno trovato una forte sintonia e l’escalation degli accordi mostra l’interesse forte tanto nelle grandi imprese quanto nelle Pmi, come testimonia la crescita degli accordi territoriali (cui aderiscono soprattutto Pmi prive di rappresentanza sindacale). Quando si parla di welfare si affronta un tema sempre molto complesso e non manca qualche preoccupazione, soprattutto in casa Cgil. Che la sperimentazione della detassazione vada proseguita non vi è dubbio, ma il timore è che il capitolo previdenza e collettività, in futuro, ne facciano le spese. La detassazione dei premi avviene attraverso l’uso di risorse pubbliche, ma per la Cgil non si deve incorrere nell’errore di mettere in contrapposizione welfare contrattuale e welfare pubblico e soprattutto non si possono utilizzare risorse pubbliche per finanziare il welfare aziendale sottraendo risorse al sistema universale di welfare perché questo produrrebbe diseguaglianze.
Sempre rimanendo al livello aziendale c’è un altro intervento sul fronte fiscale da citare. E cioè il decreto che riconosce sgravi contributivi ai datori di lavoro privati che abbiano previsto, nei contratti collettivi aziendali, istituti di conciliazione tra vita professionale e privata dei lavoratori. La sperimentazione, prevista dal decreto legislativo n. 80/2015, consentirà di destinare 110 milioni per il biennio 2017 e 2018, a valere sul Fondo per il finanziamento di sgravi contributivi per incentivare la contrattazione di secondo livello.
Welfare, conciliazione vita-lavoro, ma anche formazione continua. Lo sviluppo sostenibile non può trascurare questo tassello. Con l’approvazione della legge n. 388/2000 sono nati i Fondi interprofessionali, organismi bilaterali con il compito di favorire la formazione e l’occupabilità dei lavoratori. In questa fase di svolta tecnologica, i progetti di formazione non mancano, come mostrano le domande che arrivano ai bandi. Non si può però dire lo stesso delle risorse, dopo il passaggio del contributo dello 0,30% della massa salariale lorda che alimenta i fondi allo 0,19%, a favore in una prima fase degli ammortizzatori sociali e poi della fiscalità generale. La coperta, già corta, negli anni è stata accorciata ancor di più, ma il ruolo strategico della formazione continua per l’occupabilità è rimasto immutato.
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