La Strategia nazionale di sviluppo sostenibile in fase di varo in Italia prevede, tra gli altri obiettivi, la decarbonizzazione dell’economia. Il target europeo è -43% di emissioni climalteranti nel Vecchio continente. E l’Agenda 2030 Onu ha obiettivi stringenti in merito. Non è un caso, dunque che, a livello mondiale, molti investitori istituzionali e privati si siano impegnati a disinvestire da aziende legate ai carburanti fossili: i divestment commitments (totali o parziali) hanno raggiunto quota 5.530 miliardi di dollari a oggi, secondo il monitoraggio Fossil free. Nell’elenco di chi ha preso questa decisione, visibile su Gofossilfree.org, ci sono fondi sovrani come quello norvegese, giganti finanziari come la tedesca Allianz, fondi pensione del calibro di Calpers, amministrazioni pubbliche (ad esempio le città di Berlino e Parigi) e tante istituzioni anche religiose (fra cui la diocesi di Pescara e i Gesuiti italiani).
Urgenza clima e green bond
In molti sentono l’urgenza di abbandonare i carburanti fossili per abbattere le emissioni di anidride carbonica e contenere così il riscaldamento globale. Il trattato di Parigi sul clima si spinge fino al 2050 ma sarà il 2020 l’anno della svolta. Sulla rivista Nature, in giugno, un pool di studiosi dell’università di Yale, del Potsdam Institute for climate impact research e di organizzazioni specializzate come l’inglese Carbon Tracker, ha spiegato che entro tre anni bisognerà invertire la curva delle emissioni di CO2 verso il basso altrimenti i provvedimenti messi in campo a Parigi non serviranno a nulla. Nel documento Mission2020 (www.mission2020.global) sono stati indicati sei passi da realizzare entro il 2020, per attuare l’Agenda 2030 Onu: uno di questi dovrà farlo la finanza internazionale, cui spetta il compito di moltiplicare per 10 (e oltre) le emissioni di green bond. Dagli 81 miliardi di dollari emessi nel 2016 si dovrà passare a 800-1.000 miliardi di dollari di obbligazioni verdi all’anno. Un’utopia? A ieri, stando ai dati della Climate Bonds Initiative, eravamo a quota 79,4 miliardi di dollari di emissioni, con una stima di arrivare a 150 miliardi entro fine anno. Sarà dura arrivare a quasi un trilione di dollari all’anno. In Italia, l’apripista è stata la multiutility Hera, seguita a marzo 2017 da una maxi-emissione di Enel (il più grande green bond corporate a livello europeo, per un controvalore di 1,25 miliardi).
A fare da spartiacque in ambito obbligazionario dovrebbero essere le emissioni pubbliche. Polonia e Francia sono al momento le uniche nazioni ad aver lanciato titoli di Stato green. In un convegno a Londra a giugno, rappresentanti del ministero italiano dell’Economia e delle finanze hanno dichiarato che stanno lavorando sul tema.
Il boom degli investimenti verdi
Non bisogna però dimenticare che la finanza sostenibile ha raggiunto già importanti traguardi a livello di patrimoni e di performance. Secondo i più recenti dati della Global sustainable investment alliance (Gsia), gli investimenti sostenibili nel mondo nel 2016 erano a quota 22.890 miliardi di dollari, con un incremento del 25% rispetto al 2014. La ricerca Gsia viene realizzata ogni due anni e si riferisce ai patrimoni gestiti secondo i criteri Esg (ambiente, sociale, governance). Nel report viene segnalato inoltre che in Europa gli investimenti sostenibili hanno registrato una crescita del 12%, raggiungendo i 12 trilioni di dollari. Questo fiume di denaro è alla ricerca di aziende quotate e gestite secondo criteri di sostenibilità. Da qui l’importanza di promuovere la responsabilità sociale e ambientale nelle imprese, che tra l’altro è uno degli obiettivi della Strategia nazionale di sviluppo sostenibile in fase di varo in Italia. In quest’ambito è da ricordare che l’anno prossimo le società quotate con oltre 500 dipendenti dovranno inserire in un documento allegato ai bilanci le non financial information (su temi etici, ambientali e sociali), come previsto dalla normativa che ha recepito la direttiva Ue in merito.
Non è solo un obbligo
La spinta verso la finanza sostenibile non è però soltanto questione di obblighi normativi o di bontà. Ci sono anche le performance. Lo dimostra l’andamento dell’indice azionario Msci World contro l'omologo indice che però non contiene azioni legate ai carburanti fossili: dal lancio di quest’ultimo, nel 2010, i risultati sono migliori rispetto al tradizionale benchmark. Stesso discorso se si confrontano (questa volta a 10 anni) gli indici Msci Emerging markets e l’omologo indice che però utilizza un filtro Esg.
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