Quando si digita sui motori di ricerca «young people in Italy», persone giovani in Italia, uno dei primi risultati è un articolo della Bbc: «Young people in Italy forced to leave», le nuove generazioni in Italia sono costrette ad andarsene. La data di pubblicazione è il 2012, ma cinque anni dopo i titoli (e i contenuti) delle inchieste internazionali sono rimasti praticamente identici. I redditi medi dei professionisti under 30 sono scesi del 10% tra 2009 e 2015. Il tasso di Neet, i giovani che non studiano né lavorano, è cresciuto nella fascia 25-34 anni dal 28,1% del 2012 al 31,4% del 2016, con picchi del 46,5% nel Sud Italia. Il calo dei contratti a tempo indeterminato si è “bilanciato” con la crescita del tempo determinato, con un vero e proprio boom di contratti a somministrazione (+20,4% nel periodo gennaio-luglio 2017, secondo i numeri Inps) e soprattutto dei contratti a chiamata: +124% nell’arco di un semestre, in parte a causa dell’abolizione dei voucher.
Una combinazione di fattori che produce conseguenze immediate. E rischiose. Da un lato si disperde produttività nelle fasce anagrafiche più preziose, con impatto diretto sulla crescita economica. Dall'altro si fa scricchiolare la tenuta delle casse previdenziali, minacciate da un problema tanto intuitivo quanto pericoloso: il calo di giovani assunti in determinate categorie professionali equivale a una diminuzione dei contributi versati, con dubbi sulla sostenibilità dei sistemi previdenziali per categorie che vanno dagli ingegneri alle professioni legali.
La produttività (e il reddito) sprecati
Il disagio lavorativo dei giovani si è acuito in maniera anche più brusca negli anni della crisi. Secondo dati Ocse, un terzo dei posti di lavoro riservati agli under 29 è «scomparso» tra 2007 e 2015, complice la diffusione di contratti di lavoro a termine (come dice l’Ocse, «più facili da rescindere» e quindi da tagliare rispetto al resto dell’organico). Al tempo stesso, il recupero dei posti perduti viaggia a ritmo più lento rispetto alla media europea e, soprattutto, non avviene sempre nei canali giusti. L’Italia registra uno dei tassi più alti (49%) nei paesi Ocse per mismatch, cioè la discrepanza tra la preparazione accademica o scolastica e il lavoro che si svolge nei fatti. Maurizio Ferrera, docente di Scienza politica all’Università di Milano, spiega che «molti laureati non sono utilizzati per le proprie competenze - dice - Quindi da un lato ci si lamenta perché sarebbero “pochi”, ma dall’altro si sprecano le risorse che si hanno a disposizione. E se non punta sulle competenze più elevate, l’impresa rischia di restare al palo». Secondo Ferrera, l’incapacità di assorbire risorse ad alto tasso di qualifiche genera un «circolo vizioso» nella dinamica di ricerca del lavoro. Il vuoto di offerte adatte alle proprie qualifiche fa sì che le competenze restino «intrappolate» al fuori dal mercato dell’occupazione, innescando meccanismi di scoraggiamento e inattività: i giovani smettono di cercare e, a volte, si trovano costretti ad appoggiarsi alla prima rete di protezione sociale: la famiglia. «È un circolo che si autoalimenta in maniera perversa - dice Ferrera - Stando nell'orbita della famiglia di origine i giovani sopravvivono, magari finendo nella rete dei “lavoretti”. Ma lei pensi cosa succederebbe se non avessero le famiglie alle spalle».
Anche quando non si parla di mismatch, le offerte di lavoro agli under 35 sono penalizzate dal fattore della remunerazione. L’utimo report dell’Adepp (Associazione degli enti previdenziali privati), ha evidenziato il «gap retributivo» che gioca a sfavore dei professionisti all’ingresso nel mondo del lavoro, dagli architetti agli avvocati. Secondo dati 2015, un libero professionista di età compresa tra i 25 e i 30 anni guadagna in media 12.102,49 euro lordi, per salire a 17.362,28 lordi nella fascia 30-35. La cifra cresce a circa 50.400 euro per chi rientra nella fascia 50-55 anni, creando un gap salariale che fa sì che un 25enne guadagni un quarto di chi ha il doppio della sua età. Il divario si mantiene anche nel mondo del lavoro dipendente: dai circa 30mila euro lordi di un laureato under 34 ai quasi 36mila di un collega sopra i 45 anni, secondo un’analisi della società di ricerca JobPricing.
Solo questione di tempo e anzianità professionale? Dipende, perché in altri paesi europei come Francia e Germania le retribuzioni di ingresso si propongono già con livelli più appetibili. Willis Tower Watson, una società di consulenza, ha stimato che la retribuzione annua lorda di un giovane italiano al primo contratto in imprese di grande dimensione si attesta sui 30.400 euro. In Danimarca, tenendo conto delle differenze fiscali e di costo della vita, si sale a 52.300 euro. «A questo punto, andare all’estero diventa ovvio. A volte, chi dice che non ci sono laureati non li riesce ad atrrarre» spiega Raffaella Cagliano, docente di People management&organization alla School of management del Politecnico di Milano. «Tanti tornano in età più avanzata- dice Cagliano - Quando sono manager e possono ambire a retribuzioni più elevate. Ma non si capisce perché ci debba essere questo “gap” nel mezzo».
L’enigma delle casse previdenziali
Il calo di occupazione e stipendi tra i giovani rischia di scaricarsi anche sugli enti che riscutono e gestiscono i contributi di alcune categorie di professionisti, dagli architetti agli avvocati: le casse previdenziali. Meno lavoro per i giovani significa meno possibilità di contribuire agli enti, anche solo a livello di tasse di iscrizione. Un esempio calzante è quello di Inarcassa, l’ente che gestisce la previdenza di architetti e ingegneri. Su 168.402 iscritti nel 2016 (79.211 gli ingegneri e 89.191 gli architetti), la quota di under 30 incide su appena il 5,5% del totale, contro il 14,6% della fascia 46-50 anni e l’11% della fascia 51-55. Gli ingegneri sotto ai 30 anni guadagnano 12.674 euro lordi, mentre per gli architetti della stessa generazione si scende a 9.975 euro lordi. Importi ridotti che si traducono in minori entrate per la cassa, abituata ai tenori più elevati delle generazioni precedenti. «Le casse stimano per sé una sostenibilità di 50 anni a “costanza di tipologia lavorativa”, cioè presupponendo che il lavoro resti uguale - spiega Alberto Oliveti, presidente Adepp .- Ma il problema è che il lavoro cambia, e anche le retribuzioni, come abbiamo visto». La “bomba” che si rischia di creare per il sistema potrebbe essere frenata, secondo Oliveti, con un cambiamento della logica previdenziale: utilizzare parte dei patrimoni dei lavoratori già avviati per favorire l’inserimento (e la previdenza) dei giovani. «I sistemi tradizionali prevedevano un flusso dal lavoratore a chi ha già lavorato. Ma ora le cose sono cambiate - dice Oliveti - Dobbiamo avere la capacità di utilizzare i patrimoni già esistenti per costruire un volano dell’occupazione. Insomma, dal lavoratore al giovane che vuole lavorare».
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