Collegamento più rapido, e virtuoso, tra scuola e mondo produttivo. Orientamento già a partire dai banchi delle medie. Formazione continua degli adulti. Politiche attive realmente in grado di “ri-adattare” le competenze delle persone verso nuovi sbocchi occupazionali. Apertura ai nuovi settori, a cominciare dalla green economy. Coinvolgimento delle, e supporto alle, imprese per affrontare (al meglio) l’impatto dell’automazione in arrivo con Industria 4.0. Tutto questo avendo chiaro «l’obiettivo paese da raggiungere: tornare a creare occupazione ad alta produttività e quindi ad alti salari».
Per l’ex ministro del Welfare e numero uno dell’Istat, Enrico Giovannini, oggi portavoce di Asvis (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) e ordinario di Statistica economica all’università romana di Tor Vergata è tempo, per i governi, di «ri-orientare le scelte di politica industriale verso lavori realmente sostenibili per tutti i soggetti coinvolti: lavoratori, aziende, territori». «Per molto tempo - dice Giovannini - lo sviluppo sostenibile è stato considerato essenzialmente una questione ambientale. Oggi invece si inizia a porre l’attenzione su altri aspetti, legati anche ai nuovi lavori che guardano, appunto, alla sostenibilità».
Professore, un risposta alla crescita dei “working poor”?
Non solo. Penso, in particolare, che la nozione di “lavoro sostenibile” oltre all’accezione “lavoro nella green economy” ne abbia almeno altre due. La seconda accezione, secondo me, riguarda “il lavoro sostenibile per chi lavora”, un’occupazione cioè che permetta di sostenere le esigenze personali e familiari. Oggi sempre più impieghi non riescono a garantire redditi adeguati. Il recente Esde (Employment and social developments in Europe, ndr) della commissione Ue ha evidenziato che, nella media europea, la metà dei soggetti in povertà e disoccupati, una volta trovato un lavoro, resta povero. L’Italia è sopra questa media. Peraltro in termini occupazionali siamo ancora distanti dai livelli pre-crisi: mancano all’appello circa 300mila occupati, che, tradotti in unità di lavoro equivalenti, diventano 1,2 milioni. Per tante persone la crisi non è dietro le spalle.
E la terza accezione?
La sostenibilità nel tempo. Vale a dire quanto un impiego durerà nei prossimi anni. Attualmente si discute molto dell’impatto dell’automazione sui lavori tradizionali. Ci si divide tra ottimisti e pessimisti. Ma è un dibattito sterile. Secondo stime Ocse il 10% delle mansioni attuali potrebbe essere cancellato; il 40% subirà modifiche. Saremo colpiti da una rivoluzione complessa da decifrare e gestire: per questo è fondamentale prepararci per tempo. Penso in primo luogo al tema della formazione permanente. L’esecutivo sta ipotizzando un incentivo ad hoc per le spese in formazione, un credito d’imposta. È una misura molto importante perché verrebbe riconosciuta la leva strategica di un investimento in capitale umano, accanto a quello in macchinari. Fondamentale è poi l’orientamento scolastico, a cominciare dalle medie, e una valida alternanza scuola-lavoro.
Ma c’è bisogno anche di altre leve. Penso alle politiche attive.
Non c’è dubbio. Come governo Letta abbiamo iniziato a porci il problema, stanziando 200 milioni. A oggi però i passi in avanti sono stati pochi. Siamo ancora in una fase di sperimentazioni, con Anpal e Regioni che faticano a lavorare insieme. Penso però che le politiche attive siano vitali. E qui le Agenzie per il lavoro possono dare un contributo importante. Si tratta di passare da un ruolo consulenziale a uno più attivo che sappia guardare al medio-lungo termine per individuare le future tendenze del mercato del lavoro. Forti poi anche di queste informazioni si potranno programmare gli interventi più opportuni per reggere l’urto del cambiamento.
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