Economia

A Portovesme in pochi anni persa metà dei lavoratori

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la ripresa difficile

A Portovesme in pochi anni persa metà dei lavoratori

L’ultimo annuncio è stato definito «l’ennesima mazzata su un gigante morente». Settanta esuberi. A dichiararli la Reno, azienda d’appalto con 190 dipendenti che si occupa di manutenzioni anche alla termocentrale Enel di Portovesme. L’ultima sorpresa amara per il distretto industriale del Sulcis dove, sino ai primi anni Duemila operavano circa 5mila persone tra diretti, indiretti e indotto.

Del distretto metallurgico è rimasto in piedi meno della metà. In funzione ci sono la Portovesme srl Glencore con 1.300 lavoratori (603 diretti e 700 degli appalti) e la centrale Enel con 180 lavoratori diretti e 200 delle imprese d’appalto. E il personale che ruota attorno ai servizi e alle officine monocommessa, dati dei sindacati, vale circa 300 posti di lavoro. Il resto è fatto di vertenze da definire e ammortizzatori sociali. Eppure le premesse per un rilancio non mancano. «L’interesse delle industrie testimonia che il settore non è morto - commenta Alberto Scanu, presidente di Confindustria Sardegna -. È chiaro che su tutti grava il peso delle autorizzazioni. Dobbiamo evitare che si queste produzioni vengano perse. Perché ci sono paesi Ue dove si producono alluminio, piombo e zinco».

Per Giorgio Alimonda, sindaco di Portoscuso (comune in cui ricade Portovesme) e sino a qualche mese fa presidente del Consorzio industriale, i presupposti per un rilancio del settore industriale giacché «solo con turismo e agricoltura non si può andare avanti» ci sono. «Quello che le istituzioni locali dovevano fare l’hanno fatto. Chi deve decidere, nel rispetto della legge, lo faccia perché l’economia non può più attendere e noi non possiamo più rimanere appesi».

Il totale degli investimenti previsti supera i 440 milioni. La Portovesme Glencore (zinco, piombo, acido solforico, argento, oro e rame), per i prossimi 4 anni ha preventivato 105 milioni ma per ora deve fare i conti con le autorizzazioni per la costruzione di una nuova discarica (che da sola vale 35 milioni di euro) in cui stoccare i residui di lavorazione. La procedura è ancora in corso. Non solo, l’azienda è pronta a nuove assunzioni ma è alla ricerca di una soluzione pensionistica per un centinaio di lavoratori che, come spiega l’ad Carlo Lolliri, «hanno più di sessant’anni, 40 di contributi ma non possono ancora andare in pensione e l’azienda non li vuole licenziare».

A poche centinaia di metri ci sono i cancelli dell’Eurallumina (Rusal). Gli impianti, primo anello della filiera dell’alluminio, sono fermi dal marzo del 2009. Al momento dello stop contava 410 dipendenti diretti, 200 degli appalti produceva un milione e 200 mila tonnellate di allumina dalla raffinazione della bauxite, destinandone il 30 per cento al mercato regionale. Da oltre 1.200 giorni è in corso una procedura autorizzativa necessaria al riavvio degli impianti: previsto un investimento di 200 milioni e il reinserimento di 357 lavoratori diretti e 100 nuove assunzioni, 270 con gli appalti e altri duecento dell’indotto.

«Attualmente all’interno della fabbrica ci sono 120 ingressi giornalieri tra diretti e appalti - spiega Francesco Garau della Filctem - per garantire un riavvio in tempi rapidi. Il problema però sono i tempi per le autorizzazioni».

Davanti all’ingresso dello stabilimento Alcoa, fermo dall’ottobre del 2012, un presidio di lavoratori segue l’evoluzione della trattativa per l’acquisizione dello smelter che contava 470 dipendenti diretti e 500 degli appalti e un fatturato di 580 milioni l’anno. In pista, con un progetto da 140 milioni c’è la Sider Alloys. Tra il 2006 e il 2010 hanno fermato gli impianti lasciando a casa i 350 lavoratori, le terze lavorazioni dell’alluminio.

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