Le luminarie del Natale lungo corso Andrea Palladio, centralissima via dello shopping e dell’arte, ricordano l’avvicinarsi delle festività. Tra piazza delle Erbe, piazza dei Signori e piazza delle Biade, piene di gente, i negozi vivono una rinnovata vitalità, segno che la ripresa economica, qui come nel resto del Veneto, sta dando segnali importanti.
Vicenza è una città benestante, a misura d’uomo. E altamente industrializzata. In provincia c’è una azienda ogni 10 abitanti, il Pil 2016 ha registrato 27,5 miliardi, il giro d’affari del solo settore industriale è di 41,4 miliardi, l’export raggiunge valori da 16,7 miliardi. Settori come meccanica, siderurgia, concia, orafo hanno quote di mercato internazionale maggioritarie. L’alto tasso di esportazioni, attorno all’80%, ha fatto sì che gli otto anni di crisi lasciassero pesanti danni solo in parte, solo per chi era fortemente agganciato al mercato interno. La lacerazione profondissima, il lutto, il colpo a tradimento, è arrivato invece dall’interno, dal cuore stesso della città: dalla banca, la Popolare di Vicenza, che nei decenni è stata “madre” e traino dell’economia cittadina. Vicenza è una città silenziosa, riservata come le sue contrà; per pudore e un po’ per vergogna non ha piacere di parlare ancora di Gianni Zonin, dei danni che ha fatto e della fiducia che ha tradito. Ha provato a voltare pagina, focalizzandosi su quello che sa fare meglio, cioè l’impresa. «Il contesto è estremamente favorevole - dice il presidente di Confindustria Vicenza Luciano Vescovi -. Nei primi mesi del 2017 c’è una ulteriore crescita dell’export e molte sono le aziende che stanno esponendo cartelli con ricerca del personale».
Ma la città è costretta ancora a fare i conti con la sua ex banca: il crac della ex popolare e quello di Veneto Banca hanno portato a un valore complessivo di più di 9 miliardi di Npl (Non performing loans, ovvero sofferenze, rapporti revocati) e a un valore di circa 9 miliardi di Utp (Unlikely to pay, le inadempienza probabili, cioè gli incagli e le posizioni scadute o ristrutturate). Si tratta complessivamente di quasi 20 miliardi di euro che rappresentano circa 100mila posizioni. Di queste 100mila posizioni, la metà, 50mila, riguardano sofferenze, mentre per 45mila posizioni si parla di incagli. I dati si riferiscono al bacino d’utenza delle due ex popolari venete che operavano per un buon 80% in Veneto ma anche in Friuli Venezia Giulia, in Toscana e nel resto d’Italia. E inglobano non solo le imprese industriali, ma anche le famiglie, le ditte individuali e le persone fisiche. Dei 45mila incagli, infatti, 20mila sono ditte e famiglie, le altre 25mila sono small business e imprese manifatturiere più strutturate (che nell’ammontare del valore pesano di più).
Sofferenze e incagli sono due situazioni distinte, ma ugualmente preoccupanti, perché minano la struttura economica non solo della provincia vicentina ma dell’intero Nordest, visto che chi si trova in queste posizioni è bloccato, non può far nulla: nessuna banca può per legge concedere nuova finanza e spesso le aziende non hanno la liquidità per pagare gli stipendi. E si tratta il più delle volte di società sane, che, nel caso di sofferenze, hanno anche i soldi per rientrare del debito, e nel caso degli incagli, si trovano in centrale rischi magari per un vecchio ritardo di pagamento poi risolto. «La situazione è paradossale – dice Agostino Bonomo, presidente di Confartigianato Vicenza e del Veneto -: anche quando i debitori hanno i soldi, come nel caso di cifre da 50 o 60mila euro, non c’è soggetto che li possa incassare. È una follia, ogni minuto che passa diventa per le aziende una sciagura. Il territorio è sano e ha agganciato la ripresa, ma il rischio che alcune aziende, soprattutto quelle più fragili, con 4-5 dipendenti, vadano in fallimento c’è».
Ma perché questa empasse? Lo Stato, con il decreto legge del 25 giugno scorso, che ha imposto la liquidazione coatta di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, ha deciso di far confluire in una Sga, cioè in una società di gestione degli attivi, gli Npl delle ex popolari rifiutati da Intesa Sanpaolo. La Sga, di proprietà del Tesoro, non è una banca e non ha la capacità di gestire gli Npl: la loro gestione dovrebbe dunque essere demandata a soggetti “intermedi” di riscossione, per i quali si fa il nome di Finint, la finanziaria che fa capo a Enrico Marchi, e di Banca Ifis, già attiva nel mercato degli Npl. Ma il decreto attuativo dell’articolo 5, che prevede questa procedura, non è ancora stato emanato e dunque è tutto bloccato: non si può procedere con la vendita degli Npl, non si può riscuotere il credito, non si può sbloccare la situazione di aziende che potrebbero rimettersi sul mercato.
Dall’altro lato, c’è la partita degli incagli. Da giugno a oggi sono passati sei mesi di totale stallo e solo in questi giorni si ha notizia che la due diligence di Intesa Sanpaolo, cioè l’esame delle posizioni rimaste nel limbo e non ancora diventate sofferenze, si è conclusa. Complice l’appuntamento con la migrazione dei conti correnti, che è partita ieri alle 14 e durerà fino a lunedì mattina, Intesa Sanpaolo avrebbe già deciso quante posizioni “salvare” e trasformare in bonis e quante invece rigettare. «Ora, fatta la due diligence, abbiamo tutti gli elementi per accelerare - fa sapere il sottosegretario Pier Paolo Baretta -: entro l’anno sarà pronto il decreto attuativo. Prevediamo poi con la Sga, in un arco temporale di circa 8 anni per evitare le speculazioni, di rientrare fino al 90% degli importi». Operazione non facile, visto che le associazioni dei consumatori sono pronte a dare battaglia: «Il credito non è né certo, né liquido, né esigibile - dichiara Alfredo Belluco, presidente triveneto di Confedercontribuenti -. Spesso i rapporti bancari si possono contestare sulla base di spese, commissioni non dovute o non lecitamente pattuite, fino alle soglie di usura superate».
Resta quel macigno delle 25mila aziende a rischio, la cui posizione va esaminata al più presto. Ne va del tessuto economico del territorio. «Il contesto economico favorevole deve essere visto come un valore da attribuire alle imprese, un rating - suggerisce Vescovi -. Con uno sforzo relativo queste aziende possono essere aiutate a tornare in bonis». «Non va dimenticato anche - aggiunge Bonomo - che queste crisi bancarie hanno lasciato sul terreno 13 miliardi di decapitalizzazione che ora mancano al mercato delle garanzie: le imprese prima dei crac avevano patrimoni che potevano essere dati in garanzia sottoforma di azioni, ora non più».
Da lunedì si ricomincia. Vicenza aspetta buone notizie e il giusto sostegno alla crescita in atto.
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