Il livello di occupati evidenziato dagli ultimi dati Istat di novembre è «il più alto negli ultimi 40 anni», con un aumento di 65mila lavoratori rispetto a ottobre e di 345mila sulla lunghezza di un anno. A guastare i numeri, però, ci sono due trend che riguardano più la qualità che la quantità dell'occupazione: la crescita di lavoratori dipendenti è dettata quasi esclusivamente da contratti a termine (pari a 450mila sui 497mila registrati tra novembre 2016 e 2017), mentre il tipo di figura richiesta rientra soprattutto in settori a basso grado di qualifiche.
La categoria che ricomprende addetti a vendite, servizi personali e occupazioni elementari, all’estremo opposto di quelle ad «alte qualifiche» rappresentate da dirigenti, professioni intellettuali e tecnico-scientifiche. Ed è questo il risvolto che potrebbe rivelarsi più insidioso, sul lungo periodo: «Professioni a basse qualifiche significa salari scarsi e minore produttività» spiega Emilio Reyneri, sociologo del lavoro all'Università Bicocca di Milano.
L’anomalia italiana: cresce il lavoro, non la sua qualità
Se si dà un occhio ai dati destagionalizzati del terzo trimestre 2017, si scopre che tre fra i settori più in crescita nel segmento dei servizi ci sono «noleggio, agenzie di viaggio,servizi di supporto alle imprese» (+2,5%), «attività immobiliari» (corrispondenti ad esempio al ruolo di agente immobiliare, +2,1%) e «attività dei servizi di alloggio e di ristorazione» (+1,4%). Un’indagine dello stesso Reyneri, basata su dati Ocse, ha rivelato che l’Italia è l’unico mercato europeo (insieme alla Grecia) dove la ripresa non ha favorito la crescita di professioni ad alto tasso di qualifiche, magari di ambito tecnico-scientifico.
Su scala Ocse si è assistito, in media, a un aumento del 7,6% delle professioni «ad alta qualificazione» contro il solo +1,93% di quelle a bassa qualificazione. In Italia l’incremento delle due è stato praticamente identico: +4,78 le professioni ad alto tasso di qualfiche e +4,55% quelle a basso tasso di qualifiche. «L'Italia fa eccezione perché fascia alta e fascia bassa aumentano allo stesso modo - spiega Reyneri - Anzi, in proporzione la domanda di lavoro sembra orientata soprattutto verso il basso». Oltre alle conseguenze su produttività e reddito, la diffusione di lavori elementari espone i lavoratori a un maggior rischio di automatizzazione. O, semplicemente, a un minor peso specifico sul mercato del lavoro, con la possibilità di essere rimpiazzati a costo uguale o minore.
Il boom dei contratti a termine
Sullo sfondo resta, comunque, il predominio dei rapporti a termine. Su 497mila nuovi occupati che si classificano come dipendenti nel periodo novembre 2016-novembre 2017, 450mila sono a termine. Un balzo del 18,3% del lavoro precario che fa apparire modesta la crescita di soli 48mila posti a tempo indeterminato, pari a un aumento dello 0,3% nell'arco di un anno. Il trend conferma i numeri emersi negli ultimi anni. Dal 2015 al 2017, secondo dati dell'Osservatorio precariato Inps, le assunzioni a tempo indeterminato sono calate da circa 2 milioni a 1,02 milioni, mentre quelle a tempo determinato sono cresciute da 3,4 milioni a circa 4 milioni. «Ma questo può essere normale, è fisiologico che in fase di ripresa crescano soprattutto i rapporti a termine» dice Reyneri. Parte dell’exploit può essere correlato alla diminuizione di lavoratori indipendenti (-152mila). «Direi che è lecito immaginare una loro “trasformazione” in rapporti a tempo - dice - Il fenomeno è prociclico. La crescita solo di lavori a basse qualifiche non lo è».
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