Nonostante le scarse risorse disponibili – circa l’1% del Pil della Ue, pari al 2% della spesa pubblica dell’Unione – e la tendenza a non discostarsi dal passato, questa partita rappresenta un fondamentale tema di confronto sul futuro europeo, non solo fra contributori e beneficiari, ma anche tra riformatori e conservatori.
La definizione del nuovo bilancio della Ue è complicata da grosse novità, a partire dalla Brexit, che farà venir meno le risorse del Regno Unito – importante contributore netto, malgrado il famigerato «rimborso» – provocando un ammanco da 12-13 miliardi di euro l’anno. Si dovrà stabilire quanto tale riduzione verrà compensata da tagli di spesa, aumento dei contributi nazionali ed eventuali nuove risorse.
Guadagna consensi l’idea che si debba partire dall’individuazione di nuove priorità, reperendo fondi adeguati per i «nuovi beni pubblici europei»: ricerca e innovazione, competitività, tutela del clima, migrazioni e controllo delle frontiere, sicurezza e difesa. Tali spese andranno compensate da minori esborsi nelle politiche tradizionali, a partire da agricoltura e coesione, che assorbono – ciascuna – oltre un terzo del bilancio, tuttavia ben presidiate da forti interessi costituiti. La vera sfida sarà trasformare la politica agricola in uno strumento efficace di modernizzazione dell’agricoltura europea e utilizzare i fondi per la coesione, concepiti quale mezzo di solidarietà verso le regioni meno sviluppate, come veri investimenti per la competitività dei territori.
Con la crisi è emersa l’esigenza che il bilancio comune svolga anche funzione stabilizzatrice per assorbire shock asimmetrici relativi a singoli stati. Va quindi esplorata, nonostante le resistenze di alcuni stati, la via indicata dal Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker per «una forte linea di bilancio» destinata all’Eurozona.
Va inoltre considerato che la quota più significativa delle entrate Ue dipende dai contributi nazionali: i governi negoziano il bilancio con la miope logica del dare-avere, dei saldi netti e del «giusto ritorno»; fattori che pongono in ombra il «valore aggiunto europeo» che è alla base del bilancio Ue. Per scardinare tale impostazione occorre una nuova «risorsa propria», sotto forma di tassa comunitaria che finanzi direttamente il bilancio (per esempio una carbon tax o un’imposta sulle transazioni finanziarie). Tocca alla Commissione proporla, aprendo il confronto su misure utili a rendere il finanziamento Ue meno dipendente dagli interessi nazionali.
Oltre a eliminare il «rimborso», meccanismo poco trasparente destinato a cadere con la Brexit, bisogna semplificare e modernizzare il bilancio: aumentandone la flessibilità, prevedendo lo spostamento di risorse tra singole voci di spesa a fronte di esigenze non programmate, creando una riserva che raccolga fondi impegnati ma non spesi, combinando fondi di bilancio con altri strumenti finanziari. Si dovrà inoltre affrontare il tema – assai rilevante per l’Italia – del nesso tra uso dei fondi del bilancio comune e rispetto dei princìpi e dei valori fondanti l’Ue.
Si preannuncia una partita complessa, che farà emergere la reale volontà di investire sull’Europa. Saranno cruciali le proposte formulate dalla Commissione, base di partenza del negoziato in sede di Consiglio e Parlamento. L’accordo dovrebbe arrivare entro fine legislatura, scadenza non facile da rispettare. Vanno accolte con favore, nel frattempo, le posizioni espresse dal Parlamento sull’aumento delle risorse di bilancio e sul passaggio da un budget settennale a un bilancio da 5+5 anni, coerente con la durata della legislatura.
Su questi temi l’Istituto affari internazionali e il Centro studi sul federalismo, con il sostegno del ministero degli Esteri e della Compagnia di San Paolo, hanno svolto un’articolata ricerca, che verrà presentata a Roma oggi: auspichiamo che contribuisca alla definizione di una posizione nazionale lungimirante in vista dell’imminente negoziato europeo.
* Gli autori sono rispettivamente Presidente Istituto affari internazionali
e Presidente Centro studi sul federalismo
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