Hanno messo a punto le fabbriche più efficienti e sostenibili su scala mondiale, anticipando e superando gli standard ambientali europei. Hanno rivoluzionato i processi produttivi e la gamma di applicazioni sul mercato finale creando lastre enormi tagliabili su misura come abiti sartoriali. Hanno puntato cifre monstre sulle tecnologie digitali e la robotica trasformando un settore a bassa tecnologia in un concentrato di meccatronica. Oggi per le industrie ceramiche è scattata l’ora di focalizzare energie e strategie sulla formazione delle risorse umane.
«Dobbiamo incanalare e valorizzare gli investimenti record degli ultimi cinque anni, 1,8 miliardi in totale (515 milioni di euro solo nel 2017, con un +29% rispetto al 2016 e un’incidenza sul fatturato del 9,3%, ndr), e per farlo ci serve personale preparato da dedicare ad aziende di alto livello che competono sui mercati globali con prodotti top di gamma, esportando oltre l’80% dei volumi. Abbiamo bisogno non solo di tecnici degli Its e di ingegneri ma anche di designer e architetti. I nostri concorrenti, in questa nuova fase, non sono le ceramiche oltreconfine, bensì le imprese meccaniche, della via Emilia in primis, che hanno gioco più facile di noi nell’attirare talenti specializzati», spiega Giovanni Savorani, dallo scorso giugno alla guida di Confindustria Ceramica.
Presidente e imprenditore “anomalo” nel comparto, per radici e storia: non è sassolese, bensì romagnolo, e ha fondato la sua azienda, la faentina Gigacer, 12 anni fa alla vigilia della pensione, dopo una carriera manageriale nel settore ceramico, avendo intuito il trend nascente dei grandi formati, come suggerisce il nome aziendale.
Ma per ottenere risorse umane 4.0 in grado di far fruttare l’enorme capacità produttiva installata occorre prima «che la gente cancelli l’immagine delle fabbriche ceramiche piene di polvere e di secchi di smalti, come le ricordiamo prima del 2012, anno del terremoto che ha distrutto la manifattura emiliana ma ha dato la spinta a ricostruire e rinnovare profondamente il comparto; oggi tutto è automatizzato, con altissimi livelli di salubrità dentro e fuori gli stabilimenti e le competenze meccatroniche che servono per governare i processi sono le stesse richieste nell’automotive», sottolinea Savorani. Che si prepara al suo primo taglio del nastro di Cersaie, il prossimo 24 settembre, nelle vesti di presidente, inaugurando per l’occasione anche i nuovi padiglioni 29 e 30 del quartiere fieristico bolognese.
La 36esima edizione del Salone internazionale della ceramica per l’architettura e l’arredobagno si prepara a battere un nuovo record, dopo i 111mila visitatori registrati lo scorso anno, a dispetto di un’edilizia domestica ancora al palo e di una domanda internazionale sotto le attese. Per le 222 industrie ceramiche italiane e dei materiali refrattari si prevede infatti una chiusura d’anno in lieve calo, dopo i 6,3 miliardi di euro di fatturato registrati nel 2017, che hanno riportato il settore ai livelli pre-crisi in valore (seppure i volumi siano del 33% inferiori a quelli di inizio millennio).
Ma il primato internazionale di Cersaie, così come della nicchia industriale italiana, quando si parla di ceramica, è fuori discussione: i 4,7 miliardi di euro di export italiano di piastrelle (salgono a 5 miliardi con sanitari, stoviglieria e refrattari) valgono il 32% dell’interscambio mondiale. A dispetto di volumi produttivi che vedono i 422 milioni di metri quadrati di made in Italy pesare per appena il 3,5% della produzione mondiale.
Protagoniste indiscusse degli stand bolognesi saranno le grandi lastre e le stampe digitali frutto degli investimenti hi-tech dell’ultimo lustro, che hanno innovato e ampliato funzioni e versatilità della ceramica, migliorando nel contempo la sostenibilità dei processi produttivi, per l’80% concentrati nel distretto di Sassuolo: oggi il 15% delle materie prime è riciclato, acque reflue e scarti di produzione sono recuperati al 99%, le emissioni in atmosfera sono state tagliate dell’83% in 20 anni e i consumi energetici sono oggi la metà degli anni Novanta.
«Anche l’ultimo monitoraggio dell’Arpa conferma che il distretto di Sassuolo ha l’aria più pulita delle città di Modena e Reggio (la parola silicosi non esiste più); ma che senso hanno le normative che hanno portato le emissioni dell’industria ceramica a un decimo dei parametri di legge (non un decimo in meno, il 90% in meno!) quando poi abbiamo file ininterrotte di camion che attraversano il distretto perché mancano infrastrutture?», chiede il presidente.
È questo il secondo tema chiave per la competitività del comparto, che vive di esportazioni e si misura con i competitor spagnoli di Castellón de la Plana – sempre più agguerriti e in crescita a doppia cifra negli Usa, primo Paese di riferimento per il made in Italy – che hanno a disposizione due porti a 50 chilometri l’uno dall’altro, collegati in doppia strada a quattro corsie (per l’ingresso delle materie prime e per l’uscita dei container dal comprensorio ceramico).
«Lì c’è un sistema Paese che sostiene l’industria. Gli stipendi sono allineati ai nostri ma il cuneo fiscale è assai inferiore e l’orario di lavoro permette di coprire le 24 ore in fabbrica con 4 squadre e non 5 come in Italia», aggiunge il presidente. Preoccupato per le incognite sulla partenza dei cantieri della bretella di Campogalliano, per i lavori agli scali di Marzaglia e Dinazzano, per la fattibilità della Cispadana: opere che Sassuolo – base logistica di tutta la ceramica italiana – aspetta da decenni. E che permetterebbero non solo di far correre il traffico su gomma, ma di spostare su ferro il 33% delle piastrelle verso l’Europa (che assorbe il 50% della nostra produzione) vicina eppure sempre più difficile da raggiungere perché le frontiere di Svizzera e Austria stanno contingentando il passaggio dei tir.
In attesa che il nuovo Governo si assesti, il messaggio che lanciano gli imprenditori ceramici italiani, in vista dell’appuntamento annuale chiave per il settore, è di dare ossigeno a un distretto che, tra produzione di piastrelle e costruttori di tecnologie ceramiche, genera 9 miliardi di fatturato l’anno e 20mila posti di lavoro (che raddoppiano con l’indotto).
«Siamo tecnologicamente all’avanguardia, le misure antidumping cinesi ci garantiscono il fair trade fino al 2022; abbiamo bisogno di liberare risorse per il retraining e la formazione 4.0 – conclude Savorani – non di incanalare ancora investimenti sulle emissioni delle fabbriche, anche perché se c’è una concorrenza sleale oggi che ci penalizza è il dumping sull’ecosostenibilità degli stessi competitor europei».
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