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La «radicale incertezza» e il grande mal di testa dei comunicatori

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La «radicale incertezza» e il grande mal di testa dei comunicatori

Consumatori e stakeholder cinici, disillusi ed esigenti. Le comunità che perdono fiducia nelle istituzioni e nelle élite che finora le hanno guidate. Con il populismo e il protezionismo che incontrano i favori di porzioni più ampie della popolazione. Applichiamo il moltiplicatore della tech disruption, alla velocità (crescente) che si addice alla realtà digitale. E quello che ne viene fuori è un grosso mal di testa. Tra le figure professionali, a ognuna tocca la sua parte di dolorosa complessità. Con una, in particolare, che le addensa un po’ tutte, originando una tempesta perfetta: i professionisti della comunicazione, costretti a muoversi in un ambiente dove tutto è messo in discussione. La “radicale incertezza” viene descritta in una ricerca presentata ieri a Milano e condotta da Brand & Reputation Collective di Londra in collaborazione con EACD, l’associazione europea dei direttori della comunicazione, una no profit che raggruppa duemila professionisti in tutta Europa. Che guardano al presente con realismo: il saldo tra rischi e opportunità è ampiamente in attivo per i primi. Tra i folder che arricchiscono il catalogo delle minacce, il più pesante contiene l’imprevedibilità degli scenari (anche prossimi), l’ ambiguità che pervade in maniera trasversale i soggetti del business e la difficoltà (nitida) nel distinguere ciò che è reale da ciò che è falsa rappresentazione.

Un sentiment animato da una molteplicità di fattori che ridefiniscono radicalmente il contesto economico e, di riflesso le modalità con cui operano i professionisti della comunicazione. A partire proprio dalla volatilità, se è vero che per un terzo dei comunicatori la realtà è assediata dalla finzione o, meglio, da quella che viene definita «una lettura “alternativa” dei fatti», unita a quel quarto di intervistati che la associano anche a una «perdita di fiducia nelle istituzioni, nelle élite politiche e sociali, nei portatori di competenza e conoscenza».

«Ci muoviamo in un territorio nuovo, dove regnano la diffidenza, il pregiudizio e il discredito dei corpi intermedi, siano essi rappresentati da istituzioni governative, esperti di settore o giornalisti - commenta Marco Magli, direttore comunicazione con esperienze in aziende come Barilla e General Electric e rappresentante dell’Eacd in Italia -. Disgregata l’intermediazione, le aziende restano sempre più esposte». Nella nebbia, vengono in soccorso quei punti fermi che mettono d’accordo la quasi totalità dei comunicatori. Primo fra tutti il fatto che le aspettative di consumatori e stakeholder siano mutate e in particolare per quanto riguarda i primi, si sia completato il processo di ribaltamento dei ruoli, dismettendo i panni di consumatore passivo e prendendo il pieno comando, con aspettative elevatissime nei confronti delle aziende e un potere pieno, con un ruolo attivo e consapevole nella creazione (o nella distruzione) della brand reputation, dei prodotti e delle policies aziendali. Tutto quello che connota le contemporanee “tribù” siano esse digitali o meno. I comunicatori (39%) hanno anche capito che le persone amano le aziende che prendono posizione e che si dimostrano concretamente sensibili verso cause di tipo sociale e ambientale (purpose) . E non solo chiedono trasparenza, ma pretendono evidenze concrete dell’impegno sulle cause che dichiarano di sostenere. «C’è stato un salto di qualità enorme da parte dei consumatori - aggiunge Magli - che si sentono più forti, più informati e, di conseguenza, più esigenti. Hanno sempre più coscienza dell'importanza che le aziende ripongono nella difesa della propria reputazione, e usano questo per cercare di ottenere ciò che desiderano. Vent’anni fa le aziende guardavano agli attivisti come a delle nicchie da tenere sott’occhio o, nella migliore delle ipotesi, provare ad ascoltare. Oggi l’attivismo pervade le scelte di consumo».

Per i direttori della comunicazione, l’impatto è rilevante. Perché - sottolineano i risultati dell’indagine - il contesto spinge le aziende ad adottare una comunicazione sempre più reattiva e vigile, generando maggiore pressione sui comunicatori (32% degli intervistati), difficoltà a definire con chiarezza le priorità rispetto a aspettative sempre mutevoli (25%) e la necessità di potenziare i team attraverso l’acquisizione di nuove competenze e strumenti di analisi dei dati (19%). «L’incertezza radicale - prosegue Magli - fa lavorare i team di comunicazione in una modalità simile alla gestione delle crisi, aumentando la velocità necessaria alle decisioni, la flessibilità e l’assunzione di rischi».

Ma allora, come si fa ad essere ascoltati, considerati rilevanti e credibili in questo scenario? La risposta, per il 64% dei comunicatori sta nella definizione di principi e valori chiari, per il 55% nell'utilizzo di una comunicazione che sappia parlare una lingua più umanizzata e trasparente e nella capacità di ascoltare le istanze che arrivano dal proprio pubblico.

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