Si muovono da sole e negli ultimi anni sempre più spesso anche con iniziative coordinate. Le compagnie petrolifere – e in generale tutte le società nella filiera degli idrocarburi – sono ben consapevoli di essere in prima linea quando si tratta di responsabilità sociale d’impresa. Inutile nascondersi. Chi produce, trasporta o trasforma petrolio e gas è fonte di inquinamento per l’ambiente, anche se in misura variabile (e molto può essere fatto per contenere gli impatti). Non solo.
Questa è un’industria che ha un forte effetto sul territorio e sulle comunità che vivono in prossimità di giacimenti e impianti. È anche un’industria globale – multinazionale nel Dna, verrebbe da dire – con attività che spesso si concentrano in Paesi “difficili”, in cui ci sono grandi disparità sociali, con sacche di povertà estrema, rischi per la sicurezza, scarso rispetto per i diritti umani e una corruzione diffusa. L’Oil & gas è anche tradizionalmente un settore molto maschile, di qui l’esigenza crescente di azioni a favore della diversità e delle pari opportunità.
Redigere un bilancio sociale – fosse anche soltanto per dimostrare di avere a cuore le criticità del settore – è un’esigenza che le compagnie petrolifere hanno sentito prima è più di altri. E infatti moltissime lo fanno, senza bisogno di obblighi: circa tre quarti, a livello globale, pubblicano rapporti sulla Corporate social responsibility, ricchi di impegni e obiettivi più o meno concreti.
Costruire strade, scuole e campi sportivi nei pressi dei giacimenti o degli oleodotti è pratica comune, così come organizzare corsi di formazione o portare elettricità (magari utilizzando energia solare) nei villaggi sperduti dell’Africa. Ma si può andare molto oltre e Big Oil sempre più spesso lo fa, soprattutto sul fronte dell’ambiente e del cambiamento climatico, su cui è sempre più pressata non solo dall’opinione pubblica, ma dalla comunità finanziaria.
Gli azionisti portano mozioni “verdi” in assemblea, mentre fondi, banche e istituzioni cominciano a disinvestire dai combustibili fossili o quanto meno a pretendere trasparenza sul rischio clima: il riscaldamento del Pianeta infatti non solo moltiplica le catastrofi meteorologiche (con un impatto economico su aziende nei settori più disparati), ma genera anche accordi per contrastare le emissioni di gas serra che portano a norme ambientali sempre più severe e a tecnologie pulite che potrebbero far crollare il valore delle attività legate agli idrocarburi. È il tema degli «stranded assets», che oggi preoccupa un numero crescente di investitori.
Non a caso è proprio sui temi ambientali che le grandi compagnie petrolifere stanno unendo le forze.
La Oil & Gas Climate Initiative (Ogci), nata nel 2014, oggi riunisce 13 giganti, responsabili di un terzo della produzione mondiale di petrolio: ci sono tutte le major europee (Eni è tra i fondatori), la saudita Saudi Aramco, la cinese Cnpc e dal mese scorso anche i big americani ExxonMobil, Chevron e Occidental, che all’inizio l’avevano liquidata con toni sprezzanti.
Exxon, che ha sminuito a lungo il rischio del climate change e che solo da un anno – dopo processi in tribunale e indagini della Sec – si è decisa a pubblicare il bilancio ambientale, ha anche stanziato un milione di dollari per sostenere la campagna a favore di una carbon tax negli Usa.
L’adesione all’Ogci è un altro passo significativo. L’iniziativa appoggia l’Accordo di Parigi sul clima e finanzia ricerche e progetti per contenere il cambiamento climatico. Inoltre i membri dell’Ogci hanno appena assunto l’impegno a ridurre di un quinto entro il 2025 la dispersione di metano in atmosfera. Il taglio previsto, di circa 350mila tonnellate l’anno, è un’azione di peso per la tutela dell’ambiente: nell’arco di vent’anni una sola tonnellata di metano ha lo stesso impatto sul riscaldamento globale di 85 tonnellate di CO2.
Big Oil sta aumentando il suo impegno anche per la riduzione del flaring: la pratica di bruciare in torcia il gas estratto insieme al petrolio, davvero terribile per l’ambiente, ma purtroppo ancora molto praticata nel mondo. La Global Gas Flaring Reduction Partnership – costituita dalla Banca Mondiale con l’obiettivo di azzerare il flaring “di routine” entro il 2030 – ha raccolto l’adesione di 33 compagnie petrolifere, oltre al sostegno di 26 Paesi.
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