Economia

Auto, produzione a picco. L’Europa paga la ritirata del diesel

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Servizio |DIETRO I DATI DI NOVEMBRE

Auto, produzione a picco. L’Europa paga la ritirata del diesel

L'equilibrio è rotto. La manifattura europea sta perdendo consistenza e solidità. E, per quella italiana, iniziano a prendere una forma precisa e definitiva i segnali negativi che si sono già susseguiti per tutto il 2018.

I dati rilasciati dagli istituti nazionali di statistica in tutti i Paesi europei indicano quanto è successo e prefigurano quanto succederà. Il rallentamento della produzione industriale – in Italia, ma anche in Germania, in Francia e nella non meno importante Spagna – è un indicatore sintetico grezzo, ma va considerato alla stregua di un accesso di tosse grassa che evidenzia il cattivo stato di salute di un organismo malfermo.

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Ci sono gli shock esterni e c'è la gracilità interna. E, questa volta, in questo gioco la manifattura italiana – storicamente la seconda, dopo quella tedesca, per competitività quando le cose vanno bene e per resilienza quando le cose vanno male – rischia di diventare un vaso di coccio, in mezzo a tanti altri vasi di coccio.
Gli shock esterni sono il rallentamento della domanda mondiale, le guerre commerciali e i nuovi equilibri fra geopolitica e geoeconomia. Il neoprotezionismo filomanifatturiero degli Stati Uniti e le pulsioni egemoniche industrialiste della Cina hanno cambiato tutto.

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La gracilità interna è rappresentata dalla crisi profonda – identitaria e civile, politica ed economica – dell'Europa. Basta vedere quanto è capitato – e quanto capiterà ancora di più – nell'automotive industry. La frontiera tecnologica si sta spostando verso l'elettrico e l'ibrido: la Cina dà le carte in questo mutamento che ha effetti ovunque, perfino nell'Africa ormai in mano a Pechino che vi si approvvigiona delle materie prime necessarie; l'Europa, che ha inventato il diesel, non ha fatto nulla per opporsi a questo slittamento; nessuna politica – comune o almeno concertata fra i Paesi europei - ha molto semplicemente posto in evidenza come le nuove tecnologie del diesel abbiano impatti ambientali in linea o migliori, per lo meno, dell'ibrido.

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Tutto questo vale anche e soprattutto per l'Italia. La caduta della produzione industriale rilevata nel nostro e negli altri Paesi ha, per esempio, un capitolo importante nella caduta del settore dell'auto. Che è nel caso italiano collegato a doppio filo alle tre case automobilistiche tedesche: l'8% del valore aggiunto incorporato nelle Bmw, nelle Mercedes, nelle Audi e nelle Volkswagen è originato direttamente dai componentisti e dai sistemisti italiani.

In questa commistione fra industria ed economia, fra politiche nazionali (cinesi e americane) e non politiche europee né nazionali né comunitarie, si colgono dunque le prime vere slabbrature in un tessuto produttivo europeo che – anche grazie alla tanto vituperata globalizzazione – dai primi anni Novanta ha acquisito coerenza e integrazione e che dai primi anni Duemila – gli anni segnati dalla altrettanto odiata moneta unica – ha permesso a questo continente di rimanere ancorato a una manifattura che per definizione conferisce, in maniera strutturale e profonda, equilibrio sociale ed occupazionale.

Una funzione stabilizzatrice che, l'Italia, ha sperimentato molto bene negli ultimi 20 anni: senza la manifattura il nostro malconcio edificio nazionale sarebbe probabilmente crollato. Ma, proprio in virtù di questa essenzialità, se questa funzione stabilizzatrice venisse meno, nuovi ulteriori problemi potrebbero manifestarsi in quel complesso – e delicatissimo – organismo chiamato Italia.

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