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Gela, il «Texas d’Italia» riparte dal metano

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L'Inchiesta |reportage

Gela, il «Texas d’Italia» riparte dal metano

Chiedo scusa. Per anni negli articoli ho descritto o titolato con la locuzione “Texas d’Italia” qualsiasi sezione del Paese avesse molto petrolio nel sottosuolo, fosse la zona del Ticino, la val d’Agri, Tempa Rossa in Basilicata, l’Appennino alle spalle di Parma. Chiedo scusa ai lettori perché i “Texas d’Italia” non erano quelli: il vero Texas d’Italia, o l’Arabia d’Italia, è Gela in Sicilia, dove si vedono davvero a decine e decine i pozzi, quelli che pare il collo d’una giraffa che si china su e giù, quelli che noi — noi delle grandi città, noi dematerializzati che uozzappiamo su tastiere virtuali e ricarichiamo le batterie della sharing economy — quei pozzi li abbiamo visto solamente nei film del Texas oppure nei documentari sull’Arabia.

A Gela più di cento pozzi, ripeto più di cento, pescano il greggio dalle profondità del sottosuolo. Sono dovunque.
Pozzi oltre il ciglio della statale 115 Sud Occidentale Sicula.
Pozzi alle spalle del cartello «Gela città derackettizzata» (proprio così, sul cartello alle prime case è scritto in lettere maiuscole: «Gela città derackettizzata»).
Di fronte alla Turco Costruzioni (pozzo di petrolio Gela 91Dir).
Pozzi a fianco della cooperativa ortofrutticola Agroverde (pozzo Gela 39).
Oltre la Malluzzo Prefabbricati (trivella di perforazione).
A fianco del piazzale del bar Vella circondato dalle auto posteggiate per un caffè e un pacchetto di Malbòro (pozzo di petrolio Gela 98).
Sono arrivato a contare fino al pozzo Gela 108Dir di lato alla provinciale 192, ma il mio censimento è incompleto.

Pozzi di petrolio anche in mare. Dalla collina di capo Soprano e dalle finestre degli istituti tecnici Morselli e Maiorana si vede laggiù in mezzo al Canale di Sicilia la sagoma inconfondibile della piattaforma Prezioso.

Usciamo dal greggio, diciamo noi dell’economia defossilizzata e smarturbanizzata.
Usciamone, e veloci, ma a Gela il petrolio c’è, con la sua fisicità, da sempre: è il giacimento più vecchio tuttora in produzione dopo decenni di giraffe con il lungo collo d’acciaio. E altri giacimenti in Sicilia sono Ragusa, Giaurone, Fiumetto e, nel mare là davanti, Prezioso.

Proprio nel mare attorno alla piattaforma Prezioso sta partendo il grande investimento da 1,8 miliardi di euro per sfruttare i giacimenti colossali di metano dell’Offshore Ibleo fra i 15 e i 40 chilometri al largo verso la Tunisia e la Libia, nascosti sotto centinaia di metri di roccia sul fondo del Canale di Sicilia, nascosti sotto i nomi dall’eleganza tolemaica di Argo e Cassiopea.

I giacimenti Offshore Ibleo saranno sviluppati dall’Eni (60%) e dall’Edison (40%).
Nel frattempo Malta si sta accordando con la Regione Sicilia per il gasdotto che collegherà Gela con Delimara, sulla costa maltese: l’obiettivo è rendere Malta indipendente per le forniture di metano, ma anche censentire l’alimentazione della Sicilia con il gas che potrà arrivare dal rigassificatore di Delimara oppure che sarà scoperto nei giacimenti maltesi gemelli di quelli dell’Offshore Ibleo.

E saranno i giacimenti di metano in mezzo al mare l’argomento principale di questo articolo.

L’articolo racconta
● come cambia la città di Gela e come cambia il modo di lavorare,
● descrive la via d’uscita dalla dipendenza petrolifera,
● ripercorre le contestazioni contro lo sfruttamento dei giacimenti
● e ricorda com’è veloce a cambiare d’umore il popolo del no quando in gennaio a Licata la piazza inferocita si è ribellata contro un politico del Movimento Cinquestelle.

Stime di riserve di gas:
11,8 miliardi di metri cubi tra
● il campo Argo, più di 2,6 miliardi di metri cubi,
● Cassiopea, oltre 7,5,
● e il più piccolo ma vietato giacimento Panda, più di 1,6 miliardi di metri cubi di metano.
Un tesoro sepolto. E qualcuno commenta: meglio che sepolto rimanga.

Nata sul petrolio
Gela era la borgata agricola Terranova di Sicilia fino a quando nel Dopoguerra l’Eni, meglio, l’Agip scoprì petrolio. E poi i giacimenti di metano a Gagliano Castelferrato (Enna), dove quel 27 ottobre 1962 Enrico Mattei tenne un importante e memorabile discorso pubblico sul ruolo del metano e sugli investimenti per fare uscire la Sicilia dalla morsa del bracciantato feudale e della mafia, poi salì sull’aereo dell’Eni marcato I-SNAP diretto verso Linate e a Linate non arrivò mai.

La raffineria di Gela, anzi Raffineria con la erre maiuscola, è stata costruita tra il 1960 e il 1963, cioè ha la mia età. Un rettangolo disteso lungo le dune della costa, 500 ettari di estensione, posto sottovento rispetto alla città.

In primo piano il pozzo Gela91-Dir

Dove fa sponda il fiume Maroglio con una vecchia fornace abbandonata di mattoni e il piazzale dell’autonoleggio Hertz, in contrada Piana del Signore senza-numero-civico c’è il cancello principale della Raffineria con la tettoia, i tornelli d’entrata per i dipendenti separati dai cancelli per l’indotto, da un lato la palazzina celeste scolorito degli uffici, dall’altro lato la palazzina bianca della formazione.
La mensa, al cui muro esterno un artista ha dipinto su fondo giallo «QUESTO È SOLO L’INIZIO».
La zona di raffinazione, con le torri ossidate di distillazione.
Le sfere bianche del Gpl.
I serbatoi per i prodotti.
L’area fosfati Isaf, in smantellamento.
Le materie plastiche.
Il dissalatore, il depuratore industriale che pulisce anche le acque luride della città.
La linea del clorosoda. Le discariche.
La centrale elettrica con la ciminiera così alta che qualcuno diceva che nelle giornate di maestrale si intravede la costa della Libia ma non è vero.

La Raffineria aveva 3mila addetti, più un vorticare di imprese dell’indotto, quelli delle manutenzioni,
e quelli con i camion per consegnare i pezzi per la manutenzione,
e i gommisti specializzati nelle gomme dei camion,
e l’attività edilizia sfrenata costruiva case non finite al rustico con i riccioli dei tondini d’acciaio cui restavano impigliate le nuvole,
e quelli che aprivano il bar-pasticceria e ogni mattina agli operai che andavano al turno in Raffineria vendevano il caffè ma anche i mostaccioli di vino cotto e i biscotti ripieni di fichi secchi.

Nella stazione del treno
La Raffineria è stata chiusa nel 2014 dopo l’accordo tra l’Eni e la Regione Siciliana per la riconversione a bio-raffineria. Non raffina più petrolio.
Addio ai fertilizzanti fosfatici. Basta con la produzione di materie plastiche. La soda e il cloro. Addio.
La ruggine dell’entropia ha cominciato a conquistare l’acciaio.

Quella Gela che viveva attorno alla Raffineria sembra essersi spenta insieme con gli impianti.

Il perito chimico Ristagno Silvio dipendente Syndial-Eni mi ha suggerito: «Perché non va a vedere la stazione dei treni?»
Ha ragione, la stazione ferroviaria è uno dei termometri più sensibili per misurare la salute o la malattia di una società.
Eccomi alla stazione Fs di Gela, via Madonna del Rosario.

L’edificio è molto grande, architettura sociale anni ’70 di calcestruzzo e mattoni rossi, attraverso cui passavano molti dei pendolari che da Niscemi, Butera, Mazzarino, Licata, Caltagirone, Vittoria, Caltanissetta scendevano a Gela per lavorare in Raffineria, all’Enichem, all’Eni, all’Isaf.
Lo scalo merci era indaffarato dai treni carichi di prodotti in partenza dal petrolchimico o di materie prime in arrivo.

Conto la tessitura dei binari: otto, nove, dieci, undici. Undici binari. Più di Palermo Centrale, quasi quanto la stazione di Brescia con i suoi 20 milioni di viaggiatori l’anno.
I sottopassaggi solitari. Vietato attraversare i binari.
Una grande biglietteria chiusa a chiave.
Vuota la Centrale Telefonic (la lettera A s’è distaccata dall’insegna).
La Sala Sosta Personale chiusa e i vetri oscurati da fogli di giornale.
Abbandonati il fu-ufficio informazioni turistiche e i negozi che si affacciavano sulla vastissima sala viaggiatori.

La stazione di Gela

Il salone viaggiatori è affollato. Non sono viaggiatori. È ciò che rimane di quando Gela era uno dei grandi fermentatori sociali.
Di quelli che erano gli operai del petrolchimico oggi rimangono i due gruppi di decine di nonni che nel salone centrale della stazione giocano senza ritegno a tressette col morto: allestimento completo con il tavolino pieghevole, le poltroncine di moplèn, le coppole sulle teste dei giocatori calzate come le idee ovvie sulla Sicilia Citeriore.
Ciascuno dei due capannelli scatenati nel tressette è formato dai quattro giocatori più una quindicina di assistenti, commentatori, consiglieri.

Tabellone dei treni. In partenza alle 12,50 dal binario 1 la littorina per Siracusa, alle 15,07 dal binario 3 la littorina per Caltanissetta, stazione Xirbi.
Mi accosto all’unico treno presente nell’intera stazione, la littorina diesel per Siracusa riposa vuota sul binario 1, è la matricola 3028 costruita nel 1980 dalle officine meccaniche calabresi Omeca.

(Gli esperti di materiale rotabile perdoneranno l’uso improprio della parola littorina, mi sono documentato e queste vetture sono “automotrici serie ALn668”).

Nel salone dell’atrio le partite di tressette si fanno furibonde e nel bar tabacchi frizzano i videopoker.

In salute e in ricchezza, in malattia e in povertà
Mi sono chiesto mille volte: ma questi giacimenti di petrolio, questi decenni di attività petrolchimica, fanno male alla salute? E se sì, quanto?

È comprovato il fatto che la primissima causa della mortalità e delle malattie è di gran lunga la povertà.
Ci sono anche mille altre cause correlate e secondarie come gli stili di vita, i tassi di inquinamento, l’alimentazione insana e così via, ma gli epidemiologi dimostrano una certezza: dove c’è un mondo più povero, arretrato e lontano dalla tecnologia lì si vive meno, più brevemente e peggio.

Di sicuro nel tempo la salute e la vita sono migliorati grazie al benessere portato dalla modernità che ha strappato i gelesi e tanti altri siciliani dalla schiavitù del bracciantato, dalle miniere di zolfo, dai residui delle baronie feudali e dall’agricoltura di sussistenza con il ciuco e la coppola.

Ho voluto capire come si collocano Gela, i pozzi di petrolio e la Raffineria sulla trama dei numeri sanitari ed epidemiologici.
Inoltre sulle colline alle spalle di Gela ma già in comune di Niscemi ci sono le antenne del sistema militare statunitense di comunicazione definito Muos, il cui nome militare più corretto è Nrtf. Contro il Muos si sono accese le proteste dei Comitati No-Muos che diffondono allarmi sulla salute degli abitanti.

Per capire bene i dati citati dai comitati No-Muos sono andato all’origine dei numeri.
Il tasso medio di mortalità della Sicilia è di 10,8 morti per mille abitanti. Collima con la media italiana di 10,7.
Le nove province si mettono in fila: dalla ricca, industrializzata e inquinata Catania (la mortalità più bassa, 9,9‰) alla più povera, meno artificiale e più agricola provincia di Enna (il tasso di mortalità più alto con 12,2‰).
La media dell’intera provincia di Caltanissetta collima con la media regionale, centrale fra le nove province in quinta posizione con la media di 11,2‰.

Ora accosto la lente dell’epidemiologia sulla sola provincia di Caltanissetta e sui suoi 22 comuni.
Il luogo più severo della provincia, con il tasso di mortalità più esigente, è il comune di Sutera con 24,8‰.
Al contrario il comune in cui si vive di più in tutta la provincia è — udite udite — proprio la Gela dei pozzi e della Raffineria, una mortalità dell’8,8‰, più lusinghiera perfino rispetto alla media del Trentino-Alto Adige.

Ho cercato anche di leggere i dati sul cancro.
Purtroppo la vita di ognuno di noi ha sperimentato l’angoscia e l’infelicità portate dai tumori; nessuna famiglia italiana è stata risparmiata da questo tipo di malattia che troppe volte distrugge perfino la speranza dei bambini. A ognuno pare che il dolore colpisca gli affetti suoi più che altrove; che qui ci siano più inquinamento cancerogeno, qui alimenti più pericolosi, qui acqua peggio contaminata.
Per questo motivo ho dovuto tralasciare l’emotività e l’infelicità portata da questa malattia per guardare in trasparenza i numeri.

Il Registro tumori della Sicilia alla tabella « tutti i tumori maligni eccetto il melanoma della cute, uomini, anno 2016 », assegna al distretto sanitario di Gela un tasso grezzo di incidenza di 473, il più basso dell’intera provincia di Caltanissetta (il tasso provinciale di incidenza è 521, l’intera Sicilia si colloca a 501). Ometto i dati della tabella sulle donne perché sono simili e non aggiungono nulla.
Alla voce «rischio 0-74 anni x 100» assegna il dato a 27,7 (il rischio medio della provincia di Caltanissetta è 28,8, quello dell’intera Sicilia è 28).

I dati dicono che le attività petrolifere a Gela hanno apportato danni sanitari?
Se non ci fossero stato il petrolio e la Raffineria, la condizione di salute sarebbe stata migliore, peggiore o uguale?

Come riparte l’industria
La Raffineria di Gela sta rinascendo, e con la grande fabbrica rinasce la città, che non è più quell’agglomerato di pirateria edilizia con rustici non finiti e tondini ribelli, che ha riconquistato nuovi abitanti dopo i segnali di emigrazione.
Chiuso con il petrolio, mentre le aree della petrolchimica sono in smontaggio a mesi partirà la nuova, grande linea dell’Eni per la produzione di biodiesel.
Poche centinaia di metri più in là sta modulando la produzione l’impianto Forsu che estrae combustibile dai rifiuti umidi.
In fondo alla zona fosfati si sta attrezzando l’area di decontaminazione delle vecchie linee, che dopo lo smantellamento saranno portate nella discarica attrezzata che c’è laggiù oltre i serbatoi del Gpl e oltre la stazione di ricezione del gasdotto libico, verso l’oasi naturale del Biviere gestita dalla Lipu.
Nel centro formazione della Raffineria i ragazzi si alternano senza sosta, la mensa svassoia pietanze alle persone con la tuta blu e arancio, gli elmetti posati sulla tavola.
Nella palazzina uffici il viavai continuo non è più accompagnato dal trillare dei telefoni di bachelite grigia. (Erano i telefoni prodotti dall’Italtel nello stabilimento di Milano via Monte Rosa 91, dove in questo momento sto scrivendo questo articolo). Oggi invece dello scampanio elettromeccanico cinguettano le suonerie degli smartphone.

I tempi dei 3mila dipendenti sembrano tornati, i 1.800 dipendenti diretti del gruppo Eni e il migliaio di addetti delle imprese dell’indotto.
Sono tornati i lavoratori ma sono cambiate le “maestranze”. Sono quasi tutti tecnici e laureati. È cambiato il modo di produrre ed è cambiato l’oggetto della produzione.

La città rinasce dal metano
Dalla Raffineria si protende in mezzo al mare per 3 chilometri il molo-pontile cui una volta ormeggiavano le petroliere. Pare di toccare con la mano la piattaforma Prezioso che sta a 11 chilometri al largo.
La piattaforma Prezioso sarà la base logistica, il perno, dei giacimenti di metano che stanno nel Canale di Sicilia verso Pantelleria, Linosa e verso Gerba in Tunisia.
I pozzi porteranno il metano con un ordito di tubi posati sul fondo del mare fino alla piattaforma Prezioso, dove sarà allestito l’impianto di pulizia del gas. A terra ci sarà solamente la stazione di ricezione, non impianti di trattamento del gas.

La piattaforma Prezioso nel Canale di Sicilia, al centro del progetto di estrazione del metano

Poi dalla piattaforma il tubo posato sul fondo del mare approderà a fianco del pontile e arriverà a fianco del gasdotto Greenstream.

Dove finisce la raffineria arrivano le condutture del metanodotto libico, il Greenstream. È una delle più importanti fonti di approvvigionamento di metano per l’Italia, ma la Libia con i suoi maldipancia sociali, militari e politici non riesce a usare appieno la tubatura. Qualche numero per assegnare un valore alla conduttura di collegamento con la Libia: nell’intero 2018 il Greenstream ha portato a Gela 4,4 miliardi di metri cubi di metano (-3,8%) su un consumo italiano di 72,6 miliardi di metri cubi (-3,3%). Nel solo mese di dicembre, l’ultimo di cui è disponibile il dato, a Gela sono arrivati 416 milioni di metri cubi di gas africano.

Il costo complessivo dell’impegno è nell’ordine di 1,8 miliardi, previsti anche dall’accordo del 2014 con la Regione Siciliana per chiudere e riconvertire la raffineria. I giacimenti Argo e Cassiopea saranno sviluppati dall’Eni (60%) e dall’Edison (40%). Si trovano a circa 20 chilometri al largo di fronte a Licata.

● Le riserve di gas stimate per il giacimento Argo assommano a circa 2,62 miliardi di metri cubi. Per estrarre quel metano basterà un pozzo.

● Le riserve di gas stimate per il giacimento Cassiopea assommano a circa 7,55 miliardi di metri cubi. Per estrarre quel metano serviranno 5 pozzi.

● Le riserve di gas stimate per il giacimento Panda assommano a circa 1,69 miliardi di metri cubi. Per estrarre quel metano servirebbero 2 pozzi, che però non saranno perforati.

Totale: le riserve di gas stimate nei giacimenti ora in fase di sviluppo nel Canale di Sicilia assommano a 11,86 miliardi di metri cubi.
Per estrarre quel metano serviranno in tutto 8 pozzi, più i pozzi di prova Gemini (28 chilometri al largo) e Centauro (25 chilometri al largo).

Ma il giacimento Panda non si può toccare: come voluto dai Governi precedenti (“di default” e per antonomasia i Governi precedenti sono responsabili d’ogni male del giorno presente), per legge non si può perforare a meno di 12 miglia dalla costa, cioè 22,2 chilometri.

Lasciamolo dove sta
Come è prevedibile, nelle zone di fronte alla zona dei giacimenti si sono formati i comitati del no. Meno prevedibile il fatto che il popolo del no si sia rivoltato contro chi vuole usarne la rabbia, come si leggerà più sotto.

Bisogna sapere una cosa. Il mare è dello Stato (non di Comuni, Province o Regioni) dalla battigia fino alle 12 miglia dalla costa, e poi sono acque internazionali, e quindi i pareri delle istituzioni che stanno sulla terraferma sono apprezzabili e ascoltati ma non hanno valore giuridico.
Inoltre, i diritti di chi sta di fronte all’area interessata dal lato nord (Sciacca) non sono maggiori o minori rispetto a chi vi si affaccia a ovest (Pantelleria), a sud-est (Malta), a nord-est (Licata), a sud-ovest (Sfax, Tunisia), a sud (Linosa) e così via.

Quando si è trattato di autorizzare la perforazione in alto mare del pozzo esplorativo Lince, nell’agosto 2014 la giunta comunale della Città di Licata, con un documento dai toni infocati completato da timbri e firme, si è associata alla protesta di Greenpeace dicendo che il pozzo avrebbe danneggiato gravemente la pesca, avrebbe scacciato il turismo e avrebbe devastato anche l’area protetta del Biviere, che è a una quarantina di chilometri oltre Manfria e oltre Gela.
Il Comune di Vittoria, una cinquantina di chilometri ancora più in là, ha lanciato un accorato allarme per i rischi di terremoti.

Simili le proteste contro le ecografie al sottosuolo per individuare i giacimenti. Al ministero dell’Ambiente sono state mandate lettere-fotocopia raccolte a Pantelleria. Cito alcuni dei mittenti. Una lettera firmata dall’imprenditore tessile milanese Raffaele Carrieri (azienda Altai), una dall’esperto di comunicazione Pierluigi Navoni (azienda Les Enfants Pictures), una lettera da Massimo Ghisi della galleria Disegno di Mantova, una lettera da Angelo Barbagallo della nota e apprezzata casa di produzione Bibi Film di Roma, una da Paola Massardi che ha terreni a Pantelleria, una lettera dall’architetta paesaggista milanese Gabriella Giuntoli che ha residenza a Pantelleria, una dall’architetta paesaggista modenese Elena Pancaldi. E tante altre. Tutte lettere uguali, mandate con pari indignata protesta dagli appassionati frequentatori della meravigliosa Pantelleria.

Due mesi fa, era il 12 gennaio, circa 2mila siciliani della zona costiera di fronte al progetto di utilizzo del metano del Canale di Sicilia hanno sfilato per protesta a Licata, 38mila abitanti stabili dopo anni di perdita di cittadini e di emigrazione. Molti i motti ripetuti in coro dai contestatori e gli striscioni portati lungo il corteo, fra i quali il più aggressivo è stato «trivellazione, miseria e lutto pagherete caro pagherete tutto» e il più efficace è stato «u mari ’un si spurtusa», non si buca.
Ecco per esempio il movimento indipendentista Antudo, che rivendica «con sempre più forza e convinzione il principio di autodeterminazione contro chi, dall'alto, semina morte, desertificazione, precarietà ed emigrazione di massa». Ripeto la frase: chi dall’alto semina morte, desertificazione, precarietà ed emigrazione di massa.

Durante la manifestazione di un mese a Licata fa avvenne anche l’intoppo politico che ricorda come è veloce a cambiare d’umore la piazza.
Un deputato del Movimento Cinquestelle, Michele Sodano, era salito sul palco in piazza Progresso per testimoniare il suo no al progetto di sfruttamento dei giacimenti. Un gruppo di cittadini ha fischiato l’autorevole politico. Quando Sodano ha detto «Tutte queste autorizzazioni sono state date a partire dal 2010 dal governo Monti e dal Governo Pd» dalla piazza si sono alzate le urla «vergognati», «buffone», «sei tu al governo». Dal palco il parlamentare ha dovuto rassicurare: «D’ora in poi metteremo per sempre al bando la parola trivellazione ed esplorazioni in mare».

Tranne tre immagini belle, realizzate da fotografi professionisti, le altre fotografie di questo reportage sono state scattate da me stesso, con il telefonino, quando l’altra settimana Gela era battuta da piogge furiose. Le mie sono immagini brutte: chiedo scusa.

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