Economia

Gli accordi tra Roma e Pechino alla prova dell’applicazione

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Via della seta

Gli accordi tra Roma e Pechino alla prova dell’applicazione

Appalti, investimenti esteri, tutela dei brevetti e dei prodotti alimentari Igp. Ma anche arance e carne bovina.

Quali obblighi e quali vantaggi sono previsti per l’Italia dall’intesa – siglata sabato 23 marzo, tra il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il ”collega” cinese, Xi Jinping, a Roma – con cui il nostro Paese ha aderito alla “Belt and Road Initiative”, l’ambizioso progetto lanciato nel 2013 per il miglioramento dei collegamenti commerciali tra Europa e Asia (sia via terra che via mare)?

Per ora, sembra cambiare poco. Perché, al netto di 29 tra accordi pubblici e privati firmati in quei giorni – tra i più noti quelli che sbloccano l’export di arance e carne bovina – l’intesa sembra più un punto di partenza. Rinnovabile ogni cinque anni e senza vincoli immediati.

«Il memorandum d’intenti è una cornice – ha spiegato ieri a Milano (alla Sala lauree della Facoltà di Scienze Politiche della Statale) il sottosegretario agli Affari esteri, Manlio Di Stefano –, un’infrastruttura che servirà a “indirizzare” futuri accordi di dettaglio e che, per la prima volta, inserisce una disponibilità e un impegno del governo cinese a operare verso una piena apertura degli appalti, ad aprire verso una maggiore equità della concorrenza tra imprese e a tutelare meglio la proprietà intellettuale».

In realtà, l’intesa pone già più di un interrogativo. «In Europa – ha sottolineato Giovanna Adinolfi, Ordinario di Diritto internazionale alla Statale di Milano – le procedure di appalto sono già aperte e accessibili ad investitori internazionali, e quindi anche cinesi. Il problema è che non c’è reciprocità, cioè non avviene altrettanto per noi in Cina. Un’apertura comporterà necessariamente una o più modifiche normative che la Cina non pare pronta a fare nell’immediato. Non solo. Il recente regolamento Ue sul controllo degli investimenti diretti esteri in Europa impone ai Paesi membri un controllo sui propri investitori esteri (e un confronto con la Commissione Ue) nel caso questi “tocchino” infrastrutture critiche, quali energia, digitale e reti transeuropee. L’accordo – tra i 29 siglati lo scorso marzo con la Cina – che affida la costruzione di alcune infrastrutture intermodali nel porto di Trieste alla China Communication & Costruction company (il 6° operatore mondiale per servizi e azienda di proprietà statale) potrebbe incappare in una “censura”?».

«In queste settimane si è ironizzato molto sugli accordi che hanno sbloccato l’export italiano verso la Cina di arance e carne bovina – ha aggiunto Alessia Amighini, docente di Economia all’Università del Piemonte Orientale e alla Cattolica di Milano –. In realtà, erano dossier importanti e bloccati da anni. Tuttavia, non serviva un’intesa di questa portata per sbloccarli. Ma bisogna che siano apripista per molto altro e molto di più. Ad esempio, nessun accordo siglato amplia e rende giustizia alle collaborazioni già esistenti, su “nicchie di altissima tecnologia” tra università e centri di ricerca italiani e cinesi. I cinesi da tempo studiano il nostro modello pensionistico universale. Ma i reciproci impegni non lo menzionano. Il rischio – ha concluso Amighini – è che, come hanno più volte amesso per iscritto anche nei loro documenti, i cinesi vogliano sviluppare relazioni “diversificate” con i Paesi europei (non con la Ue): di tipo “industriale” con Francia e Germania, di tipo “pragmatico” con l’area dell’Europa orientale e su questioni “agricole e culturali” con l’Italia e il Sud Europa».

Nel 2016 la cinese Cosco shipping ha acquisito la maggioranza del Pireo, il porto di Atene. Un anno dopo, la Ue non è riuscita a presentare (per la prima volta) una sua dichiarazione al Consiglio delle Nazioni Unite sul mancato rispetto dei diritti umani in Cina. La Grecia aveva posto il veto.

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