Se la proprietà familiare ci accumuna alle economie avanzate, un’ampia sovrapposizione tra proprietà e gestione è invece un tratto distintivo dell’Italia. Caratteristica che spesso dipende dal modo non sempre razionale con cui si gestisce il passaggio generazionale. «Circa il 40% delle nostre medie imprese - spiega Gabriele Barbaresco, direttore area studi Mediobanca - non ha risolto il tema del passaggio o per non averlo ancora affrontato o perché il processo non si è concluso». Come spiega l’esperto, una possibile soluzione è la cooptazione nei ruoli apicali di uno o più soggetti esterni che possono immettere le competenze che latitano in famiglia e fungere, grazie alla propria terzietà, da soggetto che media le diverse istanze di un azionariato frammentato. I dati elaborati dall'area studi Mediobanca documentano che, laddove si è operata un'equilibrata “apertura” della governance contaminando saperi manageriali e valori della famiglia, la redditività dell'impresa ne ha beneficiato. «Purtroppo, in Italia nell’80% dei casi i membri familiari occupano i tre quarti delle posizioni in CdA - aggiunge Barbaresco - nel 70% dei casi la saturazione è totale. L'appartenenza prevale sulla competenza, a danno della redditività e della prosperità dell’azienda».
In vista di una quotazione, però, o di un’apertura del capitale a terzi qualcosa può cambiare perché la quotazione richiede l'adozione di standard di governance non compatibili con organizzazioni troppo monocratiche o autoreferenziali. «La riduzione del cumulo delle cariche e un migliore bilanciamento delle deleghe- aggiunge Barbaresco – sono necessari prima di certi processi. Le imprese più aperte ai mercati internazionali o che si vogliono espandere su mercati lontani, operando in mercati complessi, è più probabile che sposino questa logica. Avere manager capaci, non necessariamente membri di famiglia, può costituire un vantaggio competitivo, oltre che un requisito regolamentare prima di portare l’azienda in Borsa. Operare in mercati lontani comporta rischi, ma rappresenta il luogo ove si possono cogliere le maggiori opportunità perché sono quelli in maggiore espansione».
Spesso capita di leggere di imprenditori che non vogliono quotarsi per non condividere il comando con estranei e preferiscono rinunciare ad un’opportunità di crescita piuttosto che perdere il potere assoluto a cui sono abituati. «Si tratta di un grosso errore non solo perché condanna l'azienda a rimanere piccola e spesso dipendente dal mercato nazionale (con tutti i rischi che derivano) - spiega Carlo De Vanna, gestore Fondersel PMI - ma soprattutto perché blinda il processo decisionale e lo rende auto referenziale, privandolo dell’ossigeno delle nuove idee, di punti di vista alternativi e di critiche costruttive. In questa difficile transizione da piccolo e chiuso, verso più grande ed aperto, gli investitori istituzionali giocano un ruolo molto importante per colmare il gap rispetto a mercati più avanzati, gli Usa in primis. Difficilmente infatti i singoli investitori, per quanto grandi, possono raggiungere una percentuale del capitale tale da avere voce in capitolo nel processo di Governance».
Lo stato dell’arte è in evoluzione. «Quello che riscontriamo - spiega Giovanni Magra, presidente di GC Governance Consulting - è che nel momento in cui una Pmi si apre al mercato dei capitali sia con la quotazione sia con l’entrata di un fondo, questo porta nuovi investitori attenti non più solo ai numeri e dunque ai traguardi economici dell’impresa ma anche a quel sistema di governance che tutela meglio il loro investimento nel lungo periodo. Governance vuol dire, infatti, anche controllo di tutti i possibili rischi».
Il perimetro di questi si è ampliato. Pensiamo a tutti quelli legati alla digitalizzazione come i sempre più diffusi cyber attack. «Da non trascurare anche il rischio reputazione - conclude Magra - oggi nella top ten. Se non monitorato, può avere effetti devastanti sulla profittabilità dell’azienda».
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