La stretta operata dal decreto dignità sui rapporti di lavoro a tempo determinato e in somministrazione, pienamente in vigore dallo scorso 1° novembre, sta ridisegnando le dinamiche occupazionali delle imprese: a febbraio, ha ricordato l’Istat, l’occupazione permanente ha subito il primo, significativo, calo (-33mila unità sul mese); ed è andata avanti la caduta dei rapporti a termine (-11mila contratti - che prosegue, ininterrotta, da settembre 2018).
In controtendenza, il lavoro indipendente, vale a dire gli autonomi e le partite Iva, che - sempre a febbraio - sono aumentati di 30mila unità sul mese, +71mila sull’anno. Marzo - il dato è stato diffuso ieri dall’Istituto guidato dal professor, Gian Carlo Blangiardo - ha confermato questo trend iniziale: i rapporti “temporanei” si sono, di fatto, azzerati (sul mese) e molto ridotti (sull’anno); a differenza, invece, degli indipendenti che hanno registrato +14mila occupati nel confronto congiunturale, +51mila in quello tendenziale.
Tasso di occupazione migliora ma l’Europa è lontana
La ricomposizione degli ingressi al lavoro (al netto di uscite e demografia) sta tutto sommato mantenendo il tasso di occupazione
che, a marzo, è salito al 58,9%, raggiungendo il picco più alto, datato aprile 2008). Attenzione, però ai facili entusiasmi.
C’è un miglioramento. Ma restiamo lontani di quasi 20 punti dalle performance dei nostri competitor; e anche dall’obiettivo fissato, per il Belpaese, nella strategia Europa2020: 75 per cento (che ormai quindi non raggiungeremo).
Non solo. Il 58,9% è frutto del 68% di tasso di occupazione maschile e di appena il 49,8% femminile (certo, tra i risultati
più alti di sempre, ma a distanza siderale nei confronti internazionali - qui si scontano i cronici scarsi supporti alla genitorialità
e misure di conciliazione vita-lavoro poco incisive).
Sull’anno, marzo 2019 rispetto a marzo 2018, l’occupazione è cresciuta di 114mila unità per effetto dei rapporti a tempo (saliti, di molto, fino ai primi mesi del 2018, sotto la spinta della liberalizzazione dell’istituto fatta, nel 2014, con il decreto Poletti, poi smantellata dal decreto dignità) e, come detto, dal lavoro autonomo. I lavoratori a tempo indeterminato, nei 12 mesi, si sono contratti di mille unità, nonostante il buon andamento, recente, delle stabilizzazioni di contratti precari (le aziende, viste le nuove stringenti normative, stanno confermando il personale di “lungo corso”).
Cuneo fiscale «monstre»
Il punto, come ci ha ricordato l’Ocse, è che sul lavoro (in primis, quello stabile) grava un cuneo fiscale e contributivo
“monstre”: in Italia il peso di tasse e contributi ha raggiunto, per un single, il 47,9%. Siamo al terzo posto di questa non invidiabile classifica dietro Belgio e Germania. Per le famiglie con due figli, uno solo
che lavora, il cuneo veleggia al 39,1% (la media Ocse è del 26,6%). Su questo fronte, l’attuale esecutivo non ha battuto ancora
colpi significativi: è stato realizzato solo il modesto taglio delle tariffe Inail. I più ambiziosi progetti, sbandierati
in campagna elettorale, di riduzione vera del costo del lavoro sono, a oggi, rimasti tutti sulla carta.
Gli effetti del reddito di cittadinanza
L’avvio del reddito di cittadinanza invece produrrà, almeno nell’immediato, un incremento della disoccupazione per via di una maggiore riattivazione dei soggetti più svantaggiati. A preoccupare è il numero di domande di Naspi (la nuova
indennità di disoccupazione) inoltrate all’Inps: da diversi mesi superano le 100mila istanze, a testimonianza di una quota
di lavoratori che esce dall’occupazione (e spererebbe di rientrare, se non fosse, che le politiche attive sono rimaste, finora,
al palo). Negli ultimi mesi sono tornate a salire anche le ore richieste dalle imprese di cassa integrazione straordinaria
(la Cigs, utilizzata per difficoltà strutturali), segno della presenza di crisi aziendali ancora in corso (per ora la risposta
dell’esecutivo è stata la sola proroga dell’ammortizzatore, rimodulando, con deroghe, fondi e durate, accanto al ripristino
della Cigs per cessazione).
La fascia di età che soffre di più
Se guardiamo all’età della forza lavoro, chi sta soffrendo maggiormente sono due categorie: i giovani e la fascia mediana
(35-49 anni). Questi ultimi, in un anno, hanno perso qualcosa come 150mila occupati. Discorso più articolato per gli under25:
per loro il tasso di disoccupazione è sceso al 30,2%. Miglioriamo rispetto a un anno prima, in Europa siamo tornati terz’ultimi,
peggio di noi solo Spagna e Grecia. Rimaniamo comunque lontanissimi dai primi della classe, la Germania, stabile al 5,6%,
grazie al sistema di formazione duale.
Formazione e produttività le chiavi
Ecco, formazione e produttività rappresentano le due leve strategiche per rispondere alle sfide del 4.0. Oggi circa un terzo delle nuove assunzioni è considerato dagli imprenditori “introvabile” per mancanza delle competenze richieste; e un altro terzo degli attuali impieghi saranno trasformati dalla rivoluzione digitale. L’investimento sull’istruzione è
quindi sempre più strategico, ma finora il governo ha agito all’opposto, depotenziando l’alternanza in azienda (sono stati
dimezzati ore e fondi). Per quanto riguarda poi la produttività del lavoro, da vent’anni è quasi piatta, e oggi siamo fanalino
di coda in Europa. Le nuove relazioni industriali - su cui spingono Confindustria e sindacati - stanno guardando allo scambio
virtuoso tra salario e crescita aziendale. Quello che manca, anche qui, è una cornice di misure favorevoli da parte del governo.
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