Obiettivo 50 miliardi di euro di esportazioni entro il 2021. Dopo la consacrazione di Expo2015, che ha portato agli onori delle cronache un comparto produttivo che genera il valore aggiunto maggiore (61 miliardi di euro) all’interno della manifattura italiana, l’industria agroalimentare ha visto una rapida affermazione dei propri prodotti sui mercati esteri. Sebbene con un rallentamento rispetto al record del 2017 (+7%), anche lo scorso anno l’export è aumentato, sfiorando i 41,3 miliardi di euro (dati Federalimentare), per l’81% realizzato dai prodotti industriali trasformati. E il 2019 si è aperto con un’accelerazione: le vendite all’estero sono salite del 7,8% nei primi due mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2018 per l’industria alimentare, e del 3,2% per la filiera agroalimentare nel suo complesso. Manna dal cielo per le imprese del settore, oltre 7mila solo quelle dell’alimentare, con circa 385mila addetti e una produzione che nel 2018 ha raggiunto i 140 miliardi di euro (+2% sul 2017), soprattutto se si considera che il mercato interno è ancora stagnante e che sulla ripresa dei consumi pesa anche la minaccia di un aumento dell’Iva dal prossimo anno, come fa notare il presidente di Federalimentare Ivano Vacondio.
Potenziale inespresso
Ma la strada da fare è ancora lunga. Non solo per raggiungere entro il 2021 l’obiettivo dei 50 miliardi di esportazioni più volte annunciato, ma anche per guadagnare quote di mercato mondiale sui competitor: L’Italia è il quarto esportatore mondiale (dietro Germania, Francia e Paesi Bassi), ma la quota export sulla produzione delle nostre imprese è più bassa (23%, dati Unicredit) rispetto a Paesi come Francia (29%), Germania (32%), Spagna (36%) e Polonia (39%). Non solo: se è vero che negli ultimi dieci anni la propensione all’export delle imprese italiane è aumentata, le vendite oltreconfine restano concentrate in pochi mercati. Secondo Unicredit, metà dei prodotti agroalimentari italiani esportati sono venduti in soli cinque Paesi: Germania, Francia, Stati Uniti, Regno Unito e Spagna.
I limiti dimensionali
La ragione va ricercata nei limiti di un sistema estremamente frammentato, in cui il 95% delle aziende conta meno di nove addetti e solo il 2% supera i 50 dipendenti, con un fatturato medio di 2,4 milioni contro i 12,8 delle società britanniche o i 7,2 di quelle tedesche (dati Unicredit). Il nanismo rende difficile l’accesso alle catene produttive e distributive internazionali e ostacola gli investimenti necessari per l’internazionalizzazione. E spiega anche l’aumento esponenziale degli investimenti diretti esteri nell’ultimo decennio, rilevati da Nomisma (su dati Banca d’Italia). Tra il 2010 e il 2016 gli Ide sono aumentati del 213%, con un contributo particolarmente deciso da parte dei francesi (+729%), primi investitori in Italia nel settore. «L’interesse crescente dimostra che il made in Italy alimentare nel mondo è ambito, in quanto sinonimo di qualità – spiega Denis Pantini, direttore dell’area Agricoltura e industria alimentare di Nomisma –. Ma ne mette in luce anche l’intrinseca debolezza: le aziende italiane non hanno le spalle abbastanza forti per affrontare i momenti critici, come il passaggio generazionale o il salto dimensionale necessario ad attuare politiche di internazionalizzazione».
Secondo le elaborazioni di Marco Mutinelli, docente di business management all’Università di Brescia e autore di Italia Multinazionale, dal 2014 al 2018 gli investitori esteri hanno messo a segno 101 operazioni nel settore dell’agroalimentare e delle bevande nel nostro Paese. In 83 casi l’acquirente ha ottenuto il controllo, in 18 una partecipazione di minoranza o paritaria. Queste operazioni hanno riguardato asset con un fatturato complessivo di 4 miliardi e oltre 6.900 addetti. Questo comparto del made in Italy fa gola soprattutto ai concorrenti europei, se si pensa che ben 66 deal sono partiti da Paesi Ue, con Francia e Regno Unito in testa. Ma hanno fatto shopping da noi anche gruppi Usa (con 20 deal). Metà delle operazioni sono state siglate tra il 2016 e 2017, mentre nel 2018 le acquisizioni sono state appena 11, il livello più basso degli ultimi cinque anni.
A colpi di acquisizioni
Qualcosa, intanto, sta cambiando. «Negli ultimi anni – sottolinea Mutinelli – le imprese italiane del comparto hanno dedicato maggiore attenzione all’insediamento diretto sui mercati esteri, con filiali commerciali, ma anche con l’acquisizione di asset industriali destinati ad ampliare il portafoglio di prodotti e a entrare in importanti mercati di sbocco». Dal 2014 al 2018 sono 48 le operazioni che hanno visto protagoniste le imprese italiane oltreconfine. E si è trattato di deal di un certo peso, se si pensa che il fatturato complessivo delle aziende finite nel mirino è stato pari a 5,4 miliardi di euro, con oltre 16mila addetti coinvolti. In 39 casi le imprese del made in Italy hanno assunto il controllo della società estera.
A tentare la strada della crescita per linee esterne a più riprese sono però i “soliti noti”, se si pensa che oltre il 90% delle operazioni di controllo è stato realizzato da sette grandi gruppi, da Ferrero a Lavazza, passando per Granarolo, Segafredo Zanetti, Davide Campari Spa, Bolton Alimentari e Factor Holding. Sul mappamondo del business la prima scelta è rappresentata dai Paesi Ue (15 deal nei 5 anni) con la Francia in testa (7), mentre otto operazioni sono state realizzate negli Usa . «L’auspicio – dice Mutinelli – è che altri tentino questa strada anche se le dimensioni medie ridotte possono rappresentare un freno».
Canali di finanziamento
Altre potenzialità inespresse sono da ricercare nei canali di finanziamento. Oggi il settore resta infatti profondamente bancocentrico, con il 76% dell’indebitamento ancora in pancia agli istituti di credito. Di riflesso i canali alternativi a quello bancario sono ancora poco esplorati. Come mostrano i dati di Borsa Italiana, dal 2014 ad oggi solo sei società hanno fatto il loro ingresso sul mercato, Mta o Aim. E sono ancora poche quelle che hanno optato per l’emissione di mini-bond: in 16 hanno imboccato questa strada con 24 strumenti. «Oltre il 40% di essi – fa notare Anna Marucci, manager di Extra Mot Pro di Borsa Italiana – ha un ammontare complessivo inferiore al milione di euro. Il fattore dimensionale è sicuramente la ragione principale, se si pensa che quasi la metà degli emittenti registra un fatturato inferiore ai 50 milioni di euro». La quotazione e la presenza costante sui mercati finanziari, conclude, «garantisce visibilità verso i fornitori e altri stakeholder esterni nonché il rafforzamento del brand verso clienti nazionali e internazionali. Le attività di educazione finanziaria sono necessarie per far comprendere anche alle aziende di piccole e medie dimensioni il valore strategico distintivo legato al mercato dei capitali, in termini di visibilità e di benefici per la crescita».
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