Economia

Dossier La via (lenta) degli investimenti in qualità

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    Dossier | N. 3 articoli Food & wine

    La via (lenta) degli investimenti in qualità

    È un percorso che privilegia la crescita organica rispetto alle acquisizioni, fondato sul connubio tra investimenti in qualità 100% made in Italy (di prodotto e di processo) e lo sguardo internazionale, quello battuto da Barilla e da gran parte delle imprese italiane del food negli ultimi anni.

    I primi passi di Barilla in questo 2019 ne sono la conferma: la multinazionale di Parma ha inaugurato l’anno con il lancio coraggioso di un prodotto come la crema spalmabile Pan di stelle per sferrare un attacco alla regina del mercato, la Nutella. Ad aprile ha siglato un disciplinare pilota in Italia - “La Carta del Mulino” - con l’obiettivo di arrivare a declinare secondo le regole dell’agricoltura sostenibile la produzione di tutti gli ingredienti. E il 3 luglio festeggerà il raddoppio dello stabilimento di Rubbiano, nel Parmense, la più grande fabbrica di sughi in Europa, 90 milioni di euro di spesa in tecnologie e sostenibilità, che segnerà il format dello sviluppo industriale per il gruppo.

    Gli investimenti – 700 milioni nel piano quinquennale lanciato nel 2014 e un altro miliardo, annunciato lo scorso giugno, per sostenere lo sviluppo fino al 2022 – si sono tradotti in un impegno paziente per rinnovare prodotti e ricette (in media ogni anno almeno venti formule nuove o riviste) al fine di migliorare il profilo nutrizionale e ridurre l’impatto ambientale; in alleanze di filiera con tutti i principali fornitori di materie prime italiane (zucchero, pomodoro, grano) per assicurare ai consumatori i più alti standard qualitativi sul mercato, garantendo nel contempo agli agricoltori prezzi di oltre il 15% superiori alle quotazioni delle borse merci nonché sostegno finanziario (si veda il protocollo dello scorso autunno con Crédit Agricole); in innovazione tecnologica e formazione all’interno e all’esterno degli stabilimenti - da quello di Marcianise, fiore all’occhiello della pasta italiana, a quello di Castiglione delle Stiviere, il più grande biscottificio in Europa – anche attraverso collaborazioni con scuole, università ed enti no profit. Gli indicatori di bilancio non sono però il metro più efficace per misurare l’impatto degli investimenti “lenti e soft” che Barilla sta portando avanti: il fatturato da cinque anni oscilla attorno ai 3,4 miliardi di euro (il bilancio 2018 sarà presentato a inizio giugno) con una quota export attorno al 55% (oltreconfine il gruppo ha 14 dei 28 stabilimenti produttivi).

    Restando nella food valley parmense è emblematico il caso del più antico mulino d’Italia, la Agugiaro&Figna Molini Spa, nato dall’aggregazione tra due storiche famiglie di mugnai. «Assieme totalizziamo più di 500 anni di attività, ma si arriva a un punto della vita aziendale in cui senza massa critica non si cresce più. Così nel 2003 abbiamo completato una fusione paritetica al 50% e da allora, solo attraverso una crescita per linee interne supportata da 55 milioni di investimenti tra fabbricati e macchinari, abbiamo più che raddoppiato i ricavi (dai 50 milioni del 2003 ai 110 del 2018), con un Ebitda sempre sopra l’11%», afferma l’ad Alberto Figna. Ed esclude cambi di rotta a breve, «non perché scartiamo a priori M&A, ma perché le aziende di nostro interesse sono piccole e molto rischiose in quanto legate a singoli personaggi e perché i fondi hanno drogato il mercato, con moltiplicatori dell’Ebitda troppo alti per chi come noi non cerca operazioni mordi e fuggi bensì a lungo termine, dove si fanno ingenti investimenti ex post su tecnologie e risorse umane».

    «La crescita per linee interne è la più battuta nell’agrifood, perché è un settore dove prevalgono micro e piccole imprese a guida familiare con una forte resistenza all’apertura del capitale a terzi. Inoltre la crescita organica permette uniformità delle produzioni, un miglior controllo dei processi e facilita le certificazioni. Ma è il mercato stesso a spingere verso una concentrazione dei player e il made in Italy è un “marchio” che fa gola agli investitori di tutto il mondo: mi aspetto un’accelerazione dei merger nei prossimi anni», dice Luigia Mirella Campagna, analista UniCredit che nell’ultimo Industry Book sull’agrifood nazionale ha rilevato 114 deal nel Paese negli ultimi due anni, di cui 43 per mani straniere.

    E anche chi piccolo non è, il gruppo Rigoni di Asiago, leader in Europa nei prodotti biologici certificati - confetture, miele, nocciolata -, dal 1923 a oggi ha sempre privilegiato la scelta “make” e non “buy” per crescere sia sul mercato domestico (che vale i tre quarti del business) sia oltreconfine, perché «territorialità e sostenibilità non sono dei proclami, bensì scelte praticate con coerenza ogni giorno. La nostra mission è portare gli alimenti biologici italiani in tutto il mondo e sostenere le filiere produttive locali», rimarca il presidente Andrea Rigoni, che ha appena portato a casa un finanziamento di 50 milioni di euro (a fronte di un fatturato 2018 attorno ai 150 milioni) per supportare la crescita autonoma sui mercati internazionali.

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