Oltre 400 miliardi da spendere per agricoltura e ambiente – nonostante un taglio da più di 20 – e ancora poche idee su come farlo. Ammesso che l’Unione europea sempre più divisa trovi l’accordo sul bilancio pluriennale post Brexit (dal 2021 al 2027) e dando ormai per scontato il rinvio della riforma della Politica agricola, se tutto va bene, al 2023. Certamente la vecchia Pac (Politica agricola comune), che ha inglobato al suo interno la politica ambientale nel tentativo di salvare un budget in progressivo declino, è uno dei primi dossier caldi sul tavolo del nuovo Europarlamento uscito dalle elezioni di fine maggio. Che, accanto ai tagli scontati, si trova a dover affrontare da subito una contraddizione di fondo: conciliare le crescenti ambizioni ambientali delle politiche europee che fanno della sostenibilità – dalla lotta contro la plastica alle regole sempre più severe contro l’inquinamento tout court – una vera e propria bandiera, con la riduzione dei fondi a disposizione.
La difficile riforma della Politica agricola rischia di diventare il primo vero banco di prova per la tenuta stessa dei fragili equilibri della nuova Unione, già cartina di tornasole del trend sovranista con una sostanziale e profonda revisione delle regole comuni a favore delle decisioni dei singoli Stati. Perché gran parte delle nuove sfide ambientali, dalla produzione sostenibile di cibo sicuro al presidio del paesaggio e delle aree più marginali e a rischio abbandono, sono rimesse appunto – secondo le proposte sul tavolo che per ora restano lettera morta in attesa di un negoziato che si annuncia infinito – ai piani strategici nazionali che i singoli Stati membri saranno chiamati a elaborare, lasciando a Bruxelles il ruolo di controllore di alcuni parametri comuni fissati a livello europeo.
Il capitolo ambientale della riforma si annuncia come uno dei più complessi. Introdotto nel 2013, doveva essere uno dei fiori all’occhiello dell’ultima grande riforma della prima politica economica europea perché – come spiegano gli esperti – non può esistere una vera politica ambientale senza una politica agricola a monte -, ma si è rivelato un profondo fallimento. Tanto che ora si appresta a essere rivisto radicalmente. L’attuale impianto vincola un terzo dei sussidi agricoli (in totale circa 60 miliardi l’anno, pari a poco meno del 40% dell’intero bilancio europeo) al rispetto di alcuni parametri “ecologici”. Tradotto in pratica significa l’obbligo per le aziende agricole di diversificare la produzione e di destinare una quota della superficie aziendale a opere con valenza ambientale o paesaggistica, come siepi o muretti a secco. Ma la penalità in relazione agli aiuti non è mai scattata per nessuno, non solo per l’impossibilità di effettuare controlli efficaci, ma per le continue e sempre più numerose deroghe di cui il capitolo ambientale è stato oggetto sin dalla sua introduzione nel 2013. Bollato da agricoltori e associazioni come un “non senso” non solo economico – si pensi alle aziende italiane mediamente piccole costrette a scelte produttive non basate sul mercato – ma anche, cosa ancor più grave, ambientale (la rotazione colturale, peraltro già applicata dagli agricoltori, salvaguarda la fertilità dei terreni più della diversificazione pensata invece per le grandi estensioni nordeuropee).
La verità è che l’intero capitolo ambientale, che ora si tenta faticosamente di riscrivere senza oneri per i produttori agricoli - già chiamati alla sfida con la crisi dei mercati e la sostenibilità ambientale e prima ancora economica della produzione primaria -, era nato dalla necessità di giustificare il peso della Pac – da sempre ritenuto eccessivo – sul bilancio europeo con una “mano di verde” ai vecchi sussidi agricoli costantemente sotto accusa.
Le proposte della Commissione da cui ripartirà il negoziato cercano di ribaltare la prospettiva attuale: nella nuova Pac l’attuazione di pratiche rispettose dell’ambiente e del clima, invece di essere imposte con la minaccia di penalità , saranno incentivate con l’inserimento nei piani regionali di sviluppo rurale di contributi per gli agricoltori che mettono in atto pratiche di coltivazione virtuose (oltre i normali criteri di gestione obbligatori). Con un ruolo chiave riservato all’innovazione e alle nuove tecniche di precisione alle quali si affida il rilancio dell’attività economica tradizionale per eccellenza.
Non va dimenticato il valore strategico di una politica che ha garantito per anni sicurezza alimentare (intesa sia nel senso di salubrità del cibo che di certezza degli approvvigionamenti), obiettivo quanto mai attuale in un mondo sempre più instabile. Basti guardare agli effetti della guerra dei dazi o agli imponenti acquisti cinesi di nuove terre da destinare alla copertura di un fabbisogno alimentare crescente. Se per milioni di cittadini europei per oltre 60 anni questa è stata una conquista scontata, tra le sfide globali del futuro, con una popolazione mondiale in continua crescita, dovrebbe esserci proprio una produzione di cibo più sostenibile, con una migliore gestione delle risorse naturali e una distribuzione meno paradossale. Secondo gli ultimi dati della Fondazione Barilla, ogni anno viene sprecato un terzo della produzione mondiale di cibo: ne basterebbe un quarto per vincere la fame nel mondo.
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