Cari amici e colleghi,
desidero innanzitutto ringraziare il direttore della sede di Milano della Banca d'Italia, Giuseppe Sopranzetti, per aver accolto
il nostro invito di tenere oggi nel nostro auditorium la presentazione del Rapporto Bankitalia sull'economia lombarda.
E con lui ringrazio tutti gli altri rappresentanti della Banca che interverranno, come i panelist del confronto che seguirà,
Ferruccio de Bortoli e il professor Andrea Sironi insieme ad Alessandro Spada.
Il lavoro che la Banca d'Italia ha avviato da molti anni, con i suoi studi e ricerche dedicati alle economie regionali del
nostro Paese, è uno dei pilastri che contraddistinguono l'impegno eccezionale e la dedizione assoluta profusi dalle donne
e uomini che vi prestano servizio, al fine di estendere e raffinare sempre più la capacità di interpretazione dell'economia
nazionale, sulla base di dati e rilevazioni oggettive.
Come imprese nutriamo per tutto questo una enorme riconoscenza.
Ed è un motivo in più per difendere sempre a spada tratta l'autonomia e l'indipendenza che, per la Banca d'Italia, è baluardo
invalicabile a tutela di tutti noi, per lo svolgimento cioè nel solo interesse generale di tutti i delicati compiti che a
via Nazionale spettano, come componente del Sistema Europeo della Banca Centrale.
Noi non possiamo dimenticare che, senza il “whatever it takes” della BCE cui Bankitalia ha validamente concorso, in questi
difficili anni i destini del nostro Paese e della intera Euro Area e Unione Europea sarebbero stati molto più accidentati
e rischiosi.
La politica farebbe bene a ricordarlo. Sempre.
Invece di indulgere nella critica ai banchieri centrali europei, dobbiamo esser loro grati per la lungimiranza e il tempismo
degli strumenti di cui si sono innovativamente dotati, a tutela della stabilità comune. Un presupposto essenziale per noi
imprese, e per tutti i cittadini.
Ma ora, prima di lasciare la parola a chi illustrerà in dettaglio e discuterà il Rapporto, desidero svolgere solo tre ordini
di considerazioni, sulle reazioni che in me la sua lettura ha suscitato.
La prima è che, in apparenza, potremmo dirci molto soddisfatti.
Perché ancora nel 2018 i dati confermano i punti di forza e di eccellenza della nostra economia lombarda.
Un Pil cresciuto ancora del +1,4%, dopo il +2,7% del 2017.
Una produzione industriale tutto sommato ancora in buona crescita.
Un intenso ricorso a superammortamento e iperammortamento delle nostre imprese, che ha rafforzato lo sviluppo degli investimenti
privati.
Un export in crescita del +5,2%, rispetto a +3,1% dell'Italia, e IDE esteri in Lombardia così come IDE lombardi all'estero
sempre significativi e ben più consistenti della media nazionale. È la fotografia della nostra elevata interdipendenza, e
della crescita delle nostre imprese nelle catene globali del valore.
Ci ricorda, e dovrebbe ricordarlo alla politica, che ogni pretesa di tornare ad autarchie nazionali è velleitaria e foriera
di guai.
Persino nell'edilizia, settore disastrato dagli anni di crisi, le aziende lombarde che hanno registrato utili nel 2018 hanno
raggiunto una percentuale analoga a quella precrisi.
È migliorata la salute patrimoniale delle nostre imprese, grazie a una più prudente distribuzione di dividendi e maggior capacità
di autofinanziamento.
Le imprese a rischio finanziario sono solo il 14% del totale, mentre nel 2007 erano il 24%.
Abbiamo imprese dimensionalmente maggiori che in Italia, e più produttive per ogni classe dimensionale.
E le loro caratteristiche sono la leva per crescere di più in produttività e redditività: internet mobile e cloud, intelligenza
artificiale e big data, internet of things, robotica avanzata, stampa tridimensionale. Sono inoltre le aziende che hanno profondamente
innovato la propria strategia competitiva: attraverso la gamma dei servizi offerti, il numero di mercati di sbocco, il numero
di sedi estere, il numero di fornitori.
E ancora.
Gli occupati sono cresciuti del +7,4% in Lombardia tra il 2004 e il 2018, rispetto al +3,8% dell'Italia.
Da noi funziona bene la ricollocazione secondo il modello lombardo della Dote Lavoro, altro che il reddito di cittadinanza,
che ha di fatto messo sotto naftalina le politiche attive del lavoro che sarebbero più che mai necessarie, e che nulla hanno
a che fare con gli strumenti e le risorse per la lotta alla povertà assoluta
Possiamo contare in Lombardia su una ricchezza netta pro capite superiore del 30% a quella nazionale, ma con minore diseguaglianza
nella distribuzione dei redditi rispetto alla media italiana.
Perché il nostro sistema territoriale si conferma capace di maggiore integrazione e coesione sociale, e realizza migliori
indici di benessere equo e sostenibile: come avviene su istruzione, sanità, trasporti, e qualità dei servizi.
Siamo la terza Regione in UE per espositori a eventi fieristici, con spazi fieristici a Rho che sono terzi per estensione
in Europa dopo quelli di Hannover e Francoforte.
Infine, anche venendo alla parte pubblica delle Autonomie Locali lombarde, i nostri Enti territoriali registrano a fine 2018
un saldo complessivo finanziario in solo modesto squilibrio, con ben il 94% dei Comuni lombardi capaci di conseguire un attivo
di bilancio.
Tutto bene, dunque?
No, purtroppo no.
E vengo alla seconda considerazione.
Il Rapporto ci consegna una cospicua serie di rilevazioni sull'intensità della decelerazione che è in corso da metà 2018,
e che ha due freni distinti in opera.
Il rallentamento del commercio mondiale, che da oltre +4% annuo del 2017 sta via via scendendo dall'anno scorso verso un ritmo
di crescita di poco superiore al 2% annuo, per via della guerra su dazi e tariffe in atto ad opera dell'amministrazione statunitense.
E delle reazioni che suscita, in primis da parte della Cina.
E a questo si aggiunge purtroppo il rischio-Italia, l'instabilità e l'incertezza che il nostro Paese ha ripreso a diffondere
agli occhi dei mercati, dei nostri partner e alleati, e delle istituzioni europee.
Il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, nelle sue ottime considerazioni finali all'Assemblea dei partecipanti dello
scorso 31 maggio, ci ha consegnato un'analisi oggettiva di ciò che sta avvenendo.
Ci ha ricordato il dividendo positivo dell'euro, che non abbiamo saputo sfruttare destinando il risparmio di risorse generato
dal calo dei tassi d'interesse né alla stabilità della finanza pubblica mediante un equilibrio verso livelli più bassi di
entrate e uscite, né all'aumento degli investimenti pubblici rispetto alla spesa corrente.
Ci ha ripetuto che non ha alcun senso incolpare l'Europa – la cui costruzione resta in ogni caso da completare e perfezionare
– di ciò che l'Italia a casa sua non ha saputo o voluto fare: affrontare la sfida della produttività che è stagnante da metà
anni Novanta, migliorare il nostro capitale umano, accrescere l'occupabilità visto che siamo terzi in Europa per disoccupazione
e penultimi per percentuale di occupati, investire di più nelle ICT e nelle tecnologie leader dell'innovazione 4.0.
E tanto meno ha senso, in un quadro come questo e di rallentamento europeo e internazionale, impegnarsi in una nuova sfida
frontale alle regole europee che accresce lo spread e il rischio sovrano.
Non possiamo che essere d'accordo. E abbiamo tentato in ogni maniera di ricordarlo al governo, sin da metà dell'anno scorso.
Purtroppo, abbiamo dovuto prendere atto che hanno prevalso altre logiche.
Sia nella predisposizione della legge di bilancio, sia nella definizione di nuove misure necessarie a fronteggiare la frenata,
rinviate in attesa delle elezioni europee.
Senza che, per altro, le europee abbiano registrato né una maggioranza di voti né di Stati favorevoli a quel radicale “cambio
delle regole” che il governo italiano invoca su debito e deficit.
Ora ci troviamo di fronte alla “non sorpresa” – se mi passate il termine – della proposta di Bruxelles di aprire formale procedura
d'infrazione verso l'Italia, per mancato rispetto del debito.
E a un nuovo braccio di ferro con la Ue, dopo che mesi di dichiarazioni incaute, di riscrittura all'ultimo minuto della legge
di bilancio 2019 e di nuovi continui annunci e smentite sui prossimi obiettivi, ci sono costati la crescita dello spread da
quota 130 punti base, a cui si collocava nel maggio 2018, verso purtroppo quota 300.
È un quadro che per sobrietà preferisco limitarmi a definire come “preoccupante”.
Certo, il rallentamento del nostro export, della produzione, investimenti, redditività e occupazione delle imprese lombarde
resta meno grave di quello italiano, perché erode risultati conseguiti nel tempo che sono molto più significativi di quelli
delle medie nazionali.
Ma, insieme, tutto ciò pone un problema.
Serio.
Molto serio.
La frenata anche delle aree del Paese in cui si concentra una parte così rilevante rispetto al totale della produzione industriale,
del valore aggiunto, dell'export e degli investimenti privati ha un effetto più che proporzionale sul totale nazionale di
queste grandezze.
Avere di molto rallentato il sentiero di crescita degli investimenti in Industria 4.0, che in alcuni comparti avevano determinato
in 20 mesi tassi di crescita annuale a doppia cifra, rischia di provocare conseguenze molto serie. Perché la programmazione
delle imprese è pluriennale, e una volta interrotto il ciclo di ripresa grazie all'incertezza bisogna aspettare nella migliore
delle ipotesi alcuni trimestri prima che esso riprenda, se l'incertezza finisce.
Tornare strutturalmente a un ciclo di crescita prossimo allo zero e con ordini esteri in calo obbliga ad accorciare tutta
la curva della finanza d'impresa, come dei volumi dai fornitori e delle scorte.
I segnali si colgono già da mesi negli andamenti del credito in Lombardia, approfonditi nel Report.
La selezione della concessione di impieghi alle imprese non si limita a una valutazione più elevata del rischio di sostenibilità
del prenditore. Prende atto anche del fatto che la domanda di credito tende ad abbassarsi.
È ovvio che come imprenditori siamo geneticamente votati a guardare al bicchiere mezzo pieno e no mezzo vuoto, siamo instancabilmente
portati a fare comunque meglio.
Dunque, nessuna resa al pessimismo.
Tuttavia attenzione: gli anni che abbiamo alle spalle, e lo abbiamo compreso sempre meglio grazie agli studi sul comportamento
e l'evoluzione delle imprese come quello di cui parliamo oggi, sono stati anni che avevano consolidato una nuova tendenza
molto positiva.
La risposta delle imprese italiane alla crisi del post 2011, protratta in un calo verticale di performance fino a fine 2013,
si è rivelata infatti molto più solida e autoportante di quanto non avvenne nei primissimi anni dell'euro, quando il venir
meno dell'illusione del fattore monetario come strumento competitivo sui mercati attraverso la svalutazione della lira ebbe
un effetto molto duro di selezione darwiniana tra le imprese.
Nel post 2013 abbiamo ottenuto l'evidenza che vasta parte dell'impresa italiana, e innanzitutto qui in Lombardia e al Nord,
aveva appreso la dura lezione.
E si deve a questo il fatto che, per esempio, pur più dimensionalmente ridotte in media le imprese da noi rispetto a quelle
di Francia e Germania, a parità di classe dimensionale le nostre piccole e medie imprese hanno registrato fino al 2017 crescite
nelle catene globali del valore di appartenenza più significative di quelle conseguite dai nostri più diretti competitor per
mix di specializzazione produttiva.
È sull'onda di questo processo di innovazione e trasformazione, di aumento della redditività e degli investimenti, che ha
preso forza la ripresa produttiva italiana tra il 2014 e il 2017, accompagnata poi da una ripresa del saldo positivo degli
occupati.
Il 2017 è stato il punto più alto di un processo che andava seguito e agevolato come il più promettente sentiero di crescita
da molti anni a questa parte.
Non per Milano, non per la Lombardia, non per il Nord.
Ma per l'Italia.
È il rischio significativo che questo processo si interrompa, ciò che come imprenditore e come cittadino mi interroga profondamente.
È come se avvertissimo palpabilmente intorno a noi che di questo rischio non c'è consapevolezza, nel dibattito pubblico dominato
dalle polemiche quotidiane e da orizzonti di corto respiro.
Di qui la mia terza e conclusiva considerazione.
Dietro ogni impresa di successo c'è una catena di decisioni assunte continuativamente nel tempo per cogliere al meglio ogni
nuova occasione, per affrontare al meglio ogni nuovo problema e trasformarlo in una sfida da vincere.
Le imprese si dividono da sempre in due categorie: quelle capaci di cambiare e di innovarsi, e quelle che scompaiono.
Per ogni azienda il proprio marchio è come la reputazione di una persona. La reputazione si guadagna riuscendo a far bene
cose che appaiono difficili.
E anche se ovviamente un Paese e il suo sistema istituzionale non sono un'azienda, lo stesso in realtà vale per la reputazione
di un Paese, e per il nostro made in Italy. Credere di poter restare indifferenti e senza conseguenze al riparo dalla sua
perdita di credibilità complessiva, è un'illusione pericolosa.
A proposito di credibilità cito per esempio il tema dei MiniBot.
Se veramente si vogliono pagare alle imprese i debiti della Pubblica Amministrazione arretrati, lo strumento esiste già, ed
è stato inserito nell'ultima Legge di Bilancio (dal comma 849 al comma 857) che prevede liquidità illimitata, in Euro, da
parte di CDP agli Enti che certificano i crediti a favore delle Imprese.
Come fa il Governo a non esserne a conoscenza avendo reso disponibile questo stesso strumento?
È una questione di volontà politica specialmente in considerazione del fatto che le risorse per Quota 100 e RdC sono state
trovate, anche in deficit.
Suggerisco al Governo un periodo di prova, di almeno un anno, per verificare l'efficacia dello strumento finanziario iniziando
a dare il buon esempio: pagate in MiniBot gli stipendi di Ministri e Parlamentari della Repubblica!
Per tutte queste ragioni credo che come imprese di Assolombarda, e come sistema delle imprese innanzitutto del Nord, la sfida
che si pone oggi grazie ai dati di cui oggi discutiamo diventa più ampia del nostro comunque immediato dovere di difendere
con le unghie e i denti sui mercati l'eccellenza che abbiamo saputo conseguire.
Dobbiamo obbligatoriamente pensare a come richiamare e riporre al centro dell'agenda nazionale il rischio rilevante di fermare
una crescita che stava fiorendo, fatta di una grande alleanza tra pubblico e privato per l'efficienza e l'inclusione, di reti
sempre più estese di cooperazione tra Università e centri di ricerca, trasferimento tecnologico alle imprese, sperimentazione
di nuove reti di fornitura e commerciali ottimizzate dalle nuove tecnologie, nuovi diritti e più reddito ai nostro lavoratori
attraverso contratti aziendali e territoriali di produttività, fondati sul diritto alla formazione permanente come chiave
per fronteggiare e governare le nuove tecnologie.
Penso che questo sia compito più importante che ci aspetta nei prossimi mesi.
Rendere l'Italia - a ogni livello - più consapevole di che cosa stiamo rischiando.
E più fiduciosa verso tutto quello che siamo disposti a fare noi per primi, per evitarlo.
C'è una frase di Papa Francesco che mi ha molto colpito:
“La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita”.
Ecco, interroghiamoci allora: è il momento di far qualcosa di più ampio per l'Italia tutta.
Grazie
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