TOKYO – I piani quinquennali non sono solo una reminiscenza del periodo staliniano, non a caso rimessa sotto i riflettori internazionali dal leader nordocoreano Kim Jong Un al termine del recente Congresso del Partito dei lavoratori. La Corporate Japan è in piena fase di rilancio di un “concept” che finisce per incidere profondamente sulle decisioni di management, vincolando sempre più la dirigenza aziendale verso precisi target e diventando uno strumento sempre più importante di comunicazione al mercato.
I «Midterm Management Plans» a tre o cinque anni sono stati introdotti da circa l'80% delle società incluse nell'indice Topix 500, in un contesto favorito dal nuovo codice sulla corporate governance entrato in vigore nel giugno dell’anno scorso. Nel 40% dei casi questi piani comprendono un target specifico sul ROE (Return-on-equity), il che rappresenta la principale novità nel segno di un approccio più «shareholders friendly» che si allontana da una tradizione di governance focalizzata non tanto sulla gratificazione degli azionisti, quanto su presunte esigenze strategiche aziendali.
“Cambiano i modi per identificare gli obiettivi a medio termine: non più meri target non vincolanti, ma impegni del top management verso gli azionisti”
Non che i piani a medio termine non esistessero prima, ma il nuovo codice sta cambiando i modi in cui le aziende nipponiche identificano gli obiettivi a medio termine: non più meri target non vincolanti, ma impegni del top management verso gli azionisti. Se gli obiettivi non vengono conseguiti, recita esplicitamente il codice, «le ragioni sottostanti al fallimento nel conseguire i target e le iniziative della società devono essere pienamente analizzate, una appropriata spiegazione deve essere fornita agli azionisti e le relative conclusioni analitiche devono riflettersi nel successivo piano aziendale». Nella cultura aziendale nipponica il mancato conseguimento degli obiettivi a medio termine farebbe dunque «perdere la faccia» ai manager ancora più che in passato.
All’ossessione per i profitti trimestrali che caratterizza il sistema anglosassone per le società quotate, insomma, in Giappone corrisponde ormai un focus sempre maggiore sui target a medio termine, scrupolosamente analizzati dagli investitori istituzionali. Il che presenta qualche inconveniente in entrambi i casi. Al trend crescente in favore di un più efficiente utilizzo del capitale e della concessione di maggiori ritorni agli azionisti attraverso lo strumento dei dividendi, in Giappone corrisponde anche la necessità di espandere la base dei ricavi fuori dai confini nazionali: sul mercato domestico, anche per le ridotte prospettive di crescita legate al calo della popolazione, le possibilità di espansione sono chiaramente limitate.
“I top manager non possono evitare di fare shopping all’estero: e i banchieri di investimento e le società di private equity ormai lo sanno benissimo”
Un gran numero di aziende finisce quindi per porre nei «Midterm Plans» obiettivi specifici sulla percentuale futura dei ricavi che dovranno essere generati oltreconfine. Questi target quasi mai possono essere raggiunti attraverso una crescita organica all’estero: si rendono imperative operazioni di M&A, ovvero acquisizioni. Anche per non perdere la faccia, dunque, i top manager non possono evitare di fare shopping all’estero, specialmente nell’ultimo periodo dei piani aziendali in corso. Lo sanno bene i banchieri di investimento e le società di private equity. Così le aziende della Corporate Japan finiscono spesso per pagare più del dovuto: ci sono periodi in cui loro devono comprare. I potenziali venditori e i loro advisor ne approfittano.
Le richieste di trasparenza incluse nel nuovo codice, infine, implicano anche una spinta a dare maggiore autonomia ai manager delle aree regionali del mondo in cui le imprese nipponiche che si internazionalizzano espandono il loro business. Intanto lo stesso governo (non solo gli azionisti) preme sulle imprese perché impieghino l’eccesso di liquidità - una caratteristica sistemica - effettuando maggiori investimenti. Così anche le aziende di settori tradizionalmente riluttanti a porsi obiettivi di ROE – come quelle del settore immobiliare – si stanno piegando a introdurre parametri di efficienza sull’utilizzo del capitale.
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