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L’abito non fa il monaco, tuttavia contribuisce a fare il manager

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non solo apparenza

L’abito non fa il monaco, tuttavia contribuisce a fare il manager

L’idea di una riflessione approfondita sulle tendenze che caratterizzano il modo di vestire del lavoratore moderno è venuta, in occasione della recente Milano fashion week milanese (svoltasi nel capoluogo lombardo dal 21 al 27 settembre), a Copernico, società che offre spazi di lavoro e di incontro al mondo delle aziende in una logica “smart”. Cosa deve indossare il manager nella società digitale? Come deve vestire in ufficio o negli incontri con i clienti o con i colleghi?

La nota diffusa dalla società milanese invita innanzitutto a ricordare le linee guida dettate dal bestseller «Dress for Success» scritto da John T. Molloy nel 1975. Nell’ambiente di lavoro, questo il dogma partorito dall’autore americano, è necessario vestirsi in abiti formali, non solo per una questione di decoro, ma anche perché più l’abito rispecchia la nostra professionalità, più sarà facile avere successo. Questo modello, 40 anni dopo, è ancora valido?

Se guardiamo alle risultanze di una ricerca a firma della School of Management della Yale University pubblicata nel 2014, sembrerebbe di sì. Vestirsi in modo “professionale” aumenterebbe la concentrazione e la sicurezza, accrescendo così le prestazioni sul lavoro. E c’è una spiegazione di natura psicologica dietro l’indicazione che emerge dallo studio in questione, ripresa da Forbes e riconducibile a Karen Pine, fashion psychologis e professoressa alla University of Hertfordshire. «Quando si indossa un capo di abbigliamento – dice l’esperta - solitamente si adottano le caratteristiche ad esso associate. Gran parte dei nostri vestiti ha un significato simbolico: che si tratti di abbigliamento professionale o di abbigliamento da weekend, quando lo indossiamo, induciamo il cervello a comportarsi in modo coerente con quel significato».

Giacca e cravatta, insomma, rimangono un punto fermo dell’essere manager anche nella società globalizzata, sempre più tecnologica e social e votata all'estrema flessibilità operativa? Non esattamente. Una testimonianza contro, per esempio, arriva da Jennifer Baumgartner, psicologa e autrice del libro «You Are What You Wear: What Your Clothes Reveal About You» (letteralmente «Sei ciò che indossi: cosa rivelano di te i tuoi vestiti»). «Tutti gli studi in materia – dice - sono basati sulle dichiarazioni degli stessi lavoratori. Non esiste nessuno studio scientifico assoluto che dimostri che l’abbigliamento abbia realmente un impatto sulla produttività e sul successo».

Il dibattito è più che aperto, insomma, e a favore di un «dress code» che rifugge ai canoni classici vi sono, fra i tanti, i casi di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, e di Barak Obama. Personaggi, soprattutto il primo, che hanno l’abitudine di vestirsi in modo casual sul lavoro, con un abbigliamento che segue il cosiddetto «capsule clothing», e quindi l’abitudine (studiata) di vestirsi sempre con gli stessi vestiti o modelli. Una moda che, fanno notare da Copernico, si è ormai diffusa rapidamente tra i piani alti delle grandi società americane e anche (se non soprattutto) nella comunità dell’innovazione tecnologica a stelle e strisce. Peter Thiel, uno dei maggiori investitori della Silicon Valley, ha introdotto in tal senso una nuova “regola”: mai investire in un Ceo che indossa un abito formale.

Addio ai capi firmati e ai classici vestiti indossati dai manager, alle giacche, ai look impomatati: oggi i grandi leader d’azienda, alcuni di loro perlomeno, si vestono con felpa e cappuccio, con le t-shirt o al massimo le polo. Chi non ricorda Steve Jobs, il capo carismatico di Apple, e le sue maglie nere che indossava a ogni appuntamento pubblico della società della Mela con migliaia di sviluppatori e partner? Per il fondatore del colosso di Cupertino il look era una sorta di marchio distintivo per renderlo più riconoscibile. E questo approccio è di molti uomini d’affari e politici, la cui notorietà passa anche per la coerenza nel vestirsi, coerenza che diventa brand identity. L’abito (formale) non fa il manager, verrebbe da dire, e una chiave di lettura del fenomeno l’ha data proprio il presidente degli Stati Uniti in un'intervista a Vanity Fair: «Non voglio prendere decisioni su quello che mangio o indosso. Perché ho troppe altre decisioni da prendere». Risparmiare tempo ed energie nel vestirsi per dedicare queste risorse a ciò che è davvero importante, insomma. Ne era convinto anche Albert Einstein, che si vestiva sempre con varie versioni dello stesso abito grigio perché non voleva sprecare energie intellettuali per un’attività banale come scegliere il proprio “outfit” ogni mattina.

Guardando al quotidiano, c'è una tendenza che sta condizionando la vita dei comuni manager. La soggettività, l'individualità e la flessibilità che stanno prendendo il sopravvento sulla schematizzazione e l’uniformità dei comportamenti non solo rende più fluido l’ambiente professionale, ma riduce il senso di applicare regole ferree sull’abbigliamento da esibire in ufficio. Le aziende, anche un terzo di quelle italiane, ricorrono sempre più spesso al lavoro da remoto e parallelamente la linea di separazione tra la sfera privata e quella lavorativa è sempre meno netta. La fruizione del lavoro sta conoscendo nuovi profili come quello del “worksumer”, e cioè il professionista che vive il proprio lavoro nei luoghi deputati allo smart working in modo “liquido”, in termini di spazio, tempo ed esigenze di consumo. Non ci sono postazione fisse, non ci sono orari preconfezionati, a tutto vantaggio del benessere del lavoratore. Il suo aspetto formale perde di importanza, la cravatta e il completo gessato possono essere ragionevolmente sostituiti da un abbigliamento meno impegnativo, che faccia sentire il manager o il professionista a proprio agio. Facilitandogli la concentrazione sugli obiettivi e, e di conseguenza, migliorando la sua produttività o la sua creatività.

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