Spesso capita di vedere famiglie in cui i genitori chiedono il parere dei bambini su qualsiasi decisione: da cosa si mangia a cena al colore delle pareti nella camera da letto, alla scelta della meta delle vacanze. Abituato ad essere al centro dell’attenzione e con il ruolo, fin da piccolo, di consigliere della famiglia, un Millennial entra nella nostra azienda. Non chiediamo mai la sua opinione? Si sente spiazzato e, dopo le prime prove (fallite) di dire la sua, siamo sulla strada giusta per scoraggiare un neoassunto appartenente alla nuova generazione.
Non è raro che le persone presenti da più tempo in azienda abbiano percezioni sfavorevoli dei colleghi appartenenti alla generazione Y (o Millennial). «Arrogante, individualista, convinto di sapere tutto; sempre su WhatsApp o su Facebook. Non ha rispetto per l’autorità e la sua etica di lavoro lascia a desiderare». D’altro canto, la visione dei Millennial sui colleghi più grandi, dalla generazione Baby Boomer (i nati prima del 1965) in su, si focalizza spesso su caratteristiche quali, ad esempio, rigidità, resistenza al cambiamento, scarsa attitudine all’innovazione e la convinzione che l’equazione più ore passate in ufficio = performance più alta sia vera.
Da Millennial che ha avuto (fortunatamente) l’opportunità di collaborare con rappresentanti di tutte e 4 generazioni oggi presenti nelle aziende – i “veterani”, i Baby Boomer, la generazione X e la Y – mi viene qualche dubbio su quanto appena scritto. Siamo convinti di essere così diversi? Sì, abbiamo vissuto esperienze differenti, c’è stata la rivoluzione digitale, la globalizzazione, e così via; in realtà condividiamo la maggior parte dei valori, cambiano solo le priorità e, di conseguenza, la prospettiva. Prendiamo ad esempio il work-life balance, l’equilibrio tra la vita privata e quella professionale: è importante sia per la nuova che per la vecchia generazione, solo che la prima spesso lo vede come l’avere più tempo per coltivare le proprie passioni (e quindi fare lo stesso lavoro in meno tempo o da remoto) mentre la seconda lo interpreta – secondo lo stereotipo – come «lavoro di più in modo da assicurare alla mia famiglia un futuro migliore». Il valore in sé non cambia; cambia l’angolatura. La consapevolezza di queste differenze o, meglio, dei modelli mentali differenti tra varie generazioni, è il primo passo per cambiare le percezioni errate, legate agli stereotipi, e vedere la diversità generazionale come fonte di scambio, creatrice di valore e motore dell’innovazione, proprio grazie all’estensione della prospettiva.
Le scorciatoie, segnalate dalle etichette che diamo alle generazioni diverse dalla nostra, non portano da nessuna parte; creano soltanto delle tensioni basate su giudizi sbagliati. Anche perché non tutti i Millennial sono arroganti e non tutti i colleghi della vecchia generazione hanno scarsa conoscenza delle tecnologie o dei social media, anzi!
«Tutti i bambini sono degli artisti nati; il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi». Parafrasando Picasso, potremmo dire che tutti i neoassunti sono degli innovatori nati; più difficile restarlo qualche anno dopo. Chi entra in azienda, indipendentemente dalla generazione cui fa parte, ha sempre uno sguardo diverso, fresco, pieno di idee e di entusiasmo. Col tempo impara a conoscere le dinamiche interne e comincia a usare le lenti specifiche di quell’organizzazione con il rischio di finire anch’esso a pensare «se funziona, perché cambiare?» e quindi a smettere di innovare e migliorare continuamente. Saper ogni tanto mettere da parte quelle lenti e chiedersi come la vedrebbe qualcun altro è fondamentale per assicurare non solo il successo dell’azienda, ma anche la sua sopravvivenza. Ecco perché il dialogo intergenerazionale è indispensabile per poter cambiare prospettiva e restare competitivi, migliorando allo stesso tempo il clima aziendale. E per poter dialogare, dobbiamo capire e accettare le differenze, sapendo cambiare prospettiva, focalizzandoci sul “perché…?” e non sul “perché non…?” per diventare più tolleranti ed efficaci.
Uno degli strumenti utili per facilitare il dialogo tra generazioni è il reverse mentoring che, a differenza del mentoring tradizionale (che resta di grande valore), vede un giovane nel ruolo di mentor e un collega con più esperienza come “allievo”. I temi condivisi si basano su conoscenze specifiche del mentor quali le competenze digitali, le tecnologie innovative, la cultura della diversità o una visione più globalizzata, e si incontrano con l’esperienza del senior permettendo da un lato di accrescere le competenze e la visione di uno, e le soft skill e visione strategica dell’azienda dell'altro, del giovane, che veste un ruolo insolito. È come se, attraverso l’inversione dei ruoli, un Millennial e un senior si scambiassero le lenti, creando in questo modo un modello mentale condiviso che contribuisca a colmare il gap generazionale e ad accrescere il mutuo riconoscimento. A guardarsi con occhi diversi.
Se possiamo costruire i ponti tra generazioni, perché arroccarci sulle isole generazionali piene di convinzioni? Il bello dell’arcipelago sta proprio nella diversità delle isole e nelle acque che stanno intorno, ma se non siamo aperti a esplorarle, non potremo mai valorizzarlo appieno.
* Consultant Newton Management Innovation Spa
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