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La prima domanda da porsi è: «Produco valore aggiunto?»

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strategie di cambiamento

La prima domanda da porsi è: «Produco valore aggiunto?»

Secondo uno studio del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti gli studenti statunitensi quando raggiungeranno il quarantesimo anno di età avranno cambiato mediamente più di 10 lavori. Cambiare lavoro nel terzo millennio si configura sempre di più come una «stabile prospettiva esistenziale»: vivremo costantemente accompagnati dall’idea di poter abbracciare nuovi mestieri e nuovi percorsi professionali. Non sono solo le dinamiche di mercato a determinare questo scenario, ma anche la nostra crescente inquietudine personale. Cerchiamo continuamente sfide e stimoli, ci annoiamo in fretta, tolleriamo sempre meno le umane debolezze di chi lavora intorno a noi.

Eccoci dunque eternamente alla finestra: ci iscriviamo su Linkedin, curiamo il nostro CV, coltiviamo il nostro network di relazioni. Purtroppo frequentemente ci lasciamo sopraffare dalla fatica e dall’emotività («Lavorare stanca», scriveva Cesare Pavese) enfatizziamo oltremodo i tanti piccoli problemi della quotidianità lavorativa e trasformiamo in «opportunità della vita» scelte professionali che una volta sposate si rivelano in breve tempo fallimentari.

Cambiare lavoro non fa sempre bene. Spesso commettiamo errori di valutazione che col senno di poi ci accorgiamo potevano tranquillamente essere evitati. Quando decidiamo di lanciarci in una nuova avventura è facile sbagliare non tanto nella valutazione del “nuovo”, per definizione stimolante e accattivante, quanto nella valutazione dello status quo. In altre parole non riusciamo ad essere lucidi nel mettere sul piatto della bilancia pregi e difetti della nostra attuale occupazione. Esiste un metodo per soppesare correttamente la nostra situazione professionale, una serie di domande cui dobbiamo rispondere per comprendere se è opportuno abbracciare una nuova sfida (le prenderemo in esame una per una in una serie di articoli dedicati).

La prima fondamentale domanda che ci dobbiamo porre è: «Nel mio attuale lavoro sono messo nelle condizioni di produrre valore aggiunto?». Il concetto di «valore aggiunto» applicato al mondo del lavoro si rivela subdolo e insidioso. Istintivamente infatti siamo portati a ritenere che produrre valore aggiunto significhi «essere utili alla causa», «portare il proprio contributo», creare qualcosa che sia di valore per qualcun altro. Purtroppo non è così. Negli ultimi trent’anni abbiamo seguito in TV e sui giornali la storia di centinaia di crisi aziendali con lavoratori e manager che si affannavano a spiegare che «Ci vogliono chiudere, ma l’azienda è sana, è piena di ordini e fa utili. Che senso ha chiudere?». La cinica risposta che non può trovare spazio sui media è sempre la stessa e sempre disarmante nella sua semplicità: «Chiudiamo perché vogliamo investire in qualcos’altro/qualcun altro che renda di più».

È questa la definizione di valore aggiunto applicata al mondo del lavoro. Tu cameriere, tu contabile, tu amministratore delegato siete senz’altro bravissimi e produttivi, ma tecnicamente non producete valore aggiunto se io cliente/datore di lavoro posso in tempi brevi e con costi contenuti sostituirvi con qualcun altro (un altro lavoratore) o qualcos’altro (la tecnologia o una soluzione organizzativa) nel nome della produttività e dell’efficienza. In questa prospettiva portare valore aggiunto significa per un lavoratore avere la possibilità di fare la differenza rispetto a tutte le altre soluzioni alternative a disposizione del cliente/datore di lavoro. Quindi nel momento in cui meditiamo di cambiare e soppesiamo pregi e difetti del nostro attuale lavoro chiediamoci se il nostro ruolo/funzione ci permettono di fare la differenza.

Dobbiamo porci la domanda in modo spietato perché abbiamo la naturale tendenza a sopravvalutare il nostro contributo. Il nostro lavoro ci offre degli indicatori oggettivi che dimostrino a capi/datori di lavoro/clienti che siamo in grado di fare la differenza rispetto a tutte le possibili alternative? Il mercato infatti osserva sempre più rigorosamente la seguente regola: «Se puoi essere sostituito lo sarai». È una amara dinamica economica che in Italia anche il mondo del diritto sembra aver recepito. La Cassazione con la sua sentenza del 7 dicembre 2016 ha sancito per la prima volta la possibilità di licenziare un lavoratore per giustificato motivo oggettivo anche per ragioni legate alla migliore redditività ed efficienza dell’azienda. La notizia è finita sui giornali, ma è stata probabilmente sottovalutata. Si tratta infatti di una sentenza rivoluzionaria. Perché? Perché fino a quel momento solo una situazione fortemente negativa in termini di contrazione del fatturato e/o crisi aziendale poteva giustificare un licenziamento. La Cassazione in sostanza ha detto: «Caro imprenditore, se dimostri di poter essere più efficiente rimuovendo una funzione aziendale puoi farlo, anche se l’azienda non sta affrontando una crisi o un crollo del fatturato».

Il mercato del lavoro sembra prendere le sembianze di un animale selvatico e aggressivo. Tutti i giorni c’è qualcuno che ci guarda in ufficio, in cantiere, nel reparto e si chiede: «Posso fare a meno di lui?». Chiediamoci spassionatamente cosa succederebbe ai nostri capi/colleghi/clienti se fossimo costretti ad assentarci per un periodo di un anno. In quanto tempo la nostra organizzazione risolverebbe il problema? Con quale danno? Ecco la dura verità sul nostro attuale lavoro. Una verità che non giudica le nostre competenze (anzi ci chiama ad ampliarle per renderle più uniche e meno sostituibili) ma solo la nostra collocazione contingente. Una verità che non parla solo alle mansioni meno qualificate, ma anche ai ruoli apicali. È facile dire che un operatore di call center non produce valore aggiunto. Ma anche un direttore finanziario collocato in un contesto in cui non può esprimere il suo tocco “speciale”, il suo mix speciale di competenze, esperienze, relazioni, non produce valore aggiunto.

Il nostro attuale lavoro potrebbe annoiarci, innervosirci, stancarci, esporci al contatto con persone che non ci piacciono. Eppure paradossalmente potrebbe offrirci il nostro «posto al sole» dove fare la differenza, la nostra isola di insostituibilità. Cambiare in questo caso sarebbe una scelta azzardata che meriterebbe una riflessione molto critica e approfondita.

* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring

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