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«Decision-Making»: ok gli algoritmi, ma se usassimo anche…

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sbagliando si impara

«Decision-Making»: ok gli algoritmi, ma se usassimo anche il buon senso?

Prendere una decisione non è soltanto un atto o un processo, ma rappresenta, ai nostri occhi e a quelli degli altri, uno status. Spendiamo parte della nostra vita bramando il momento in cui potremo «fare quello che sentiamo giusto, per noi» (il passaggio dalla dipendenza familiare all’autonomia dell’'età adulta), oppure lavoriamo assiduamente aspettando il giorno in cui potremo agire dimostrando quello che «sappiamo e sappiamo fare» (diventare responsabili di un progetto o capi di un gruppo di lavoro nella nostra azienda). Peccato che immediatamente dopo aver varcato quella soglia (ad esempio, fuori dal nido genitoriale) ci accorgiamo sia di quanto le nostre decisioni spesso siano condizionate dagli apprendimenti familiari e culturali (in definitiva, la nostra aspettativa di libertà totale si rivela illusoria), sia della gravitas, del peso che questa responsabilità comporta; essere diventati i «Decision Maker» ha come conseguenza il godere dei successi delle proprie scelte azzeccate, ma ha il retrogusto del subire, altrettanto pienamente, gli effetti negativi di decisioni poco efficaci (in fin dei conti, mi sentivo più protetto, quando c’era qualcuno che decideva e si occupava di me…).

Gli algoritmizzati

Nel mondo del lavoro questa dinamica può riproporsi, amplificarsi e a volte complicarsi, anche a causa dell’utilizzo degli strumenti gestionali che facciamo nostri e affiniamo. Avere l’ultima parola nell'approvazione di un budget, piuttosto che dare il via ad una nuova procedura sono azioni che testimoniano una nostra crescita nell’organizzazione, spesso in senso gerarchico, quasi sempre in termini di visibilità. Tuttavia, per quanto la nostra preparazione sia puntuale e la nostra esperienza consolidata, un margine di rischio esiste sempre. È in questo momento che le tecniche di decision making ci tornano utili sia nell’analisi dei fattori che intervengono nel contesto decisorio, sia nella relativa raccolta delle alternative tra le scelte possibili.

Strumenti quali la SWOT Analysis, l’analisi dei costi e benefici, la Grid Analysis e gli alberi decisionali ci aiutano a sistematizzare le informazioni e a calcolare la probabilità che la nostra scelta sia la migliore. Nutriamo la sensazione che tradurre le alternative in numeri renda la scelta più semplice, più “sicura”. E a volte è così. Peccato che esercitare troppo questa pratica ci porti spesso a seguire unicamente il criterio dell’utilità e dell’economia, mettendo in secondo piano altri elementi che andrebbero a loro volta esplorati, a seconda del contesto. I giudizi, le esperienze precedenti, la personale percezione del rischio ed infine le nostre emozioni influiscono tanto quanto gli algoritmi dell'utilità nel processo decisorio e se portati sulla superficie della nostra consapevolezza possono essere usati in modo proficuo, piuttosto che lasciati agire incontrollati negli strati più sommersi del nostro iceberg comportamentale. Molto spesso questi elementi possono essere riassunti in un unico concetto, semplice ma non banale e squisitamente umano. Il buon senso.

Il recente premio Nobel per l’economia, assegnato a Richard Thaler, è probabilmente un segno di una nuova era, in cui il paradigma matematico-economico imperante negli ultimi decenni negli studi del decision making deve integrarsi con la reale osservazione del comportamento e della scelta umani. Il fil rouge che unisce il lavoro del professor Thaler a quello degli altri due premi Nobel, Herbert Simon e Daniel Kahneman (“psicologi economici”) narra dei limiti di un’economia troppo occupata a spiegare come gli esseri umani dovrebbero comportarsi perché razionali, più che di una ricerca basata su attente osservazioni di ciò che ci succede realmente nella vita vera, di cosa facciamo e del perché agiamo in un determinato modo. In un momento storico in cui la complessità rimette in discussione ogni giorno i paradigmi lineari, superare quelle dicotomie cartesiane che ci portiamo appresso diventa non soltanto un esercizio opzionale, «nice-to-have», bensì un’attitudine salvifica.

* Senior Consultant di Newton Management Innovation

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