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Il cambiamento è una competenza che deve essere coltivata

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sbagliando si impara

Il cambiamento è una competenza che deve essere coltivata

(Marka)
(Marka)

La difficoltà che si sperimenta nel tentativo di intraprendere un cambiamento (ad esempio smettere di fumare o iniziare una dieta ipocalorica) è forse pari solamente alla necessità che a un certo punto solennemente riconosciamo a quel cambiamento, per il bene nostro e di chi ci sta intorno. Ma la naturalezza con cui si ritorna allo status quo (fumare o eccedere con le calorie) è formidabile, ne volete una prova? «Non c’è nulla di immutabile, tranne l’esigenza di cambiare», diceva Eraclito. Provate a mettervi a braccia conserte mentre leggete. Solitamente in questa posizione si può sperimentare un certo grado di comodità. Ora provate a mettervi a braccia conserte incrociandole al contrario… Fatto? Come vi sentite adesso, più o meno comodi di prima? Se tornassi a chiedervi di mettervi a braccia conserte diciamo tra un quarto d’ora quasi certamente scegliereste la prima posizione, perché è quella a cui siete abituati.

Al netto delle situazioni in cui siamo addirittura resistenti rispetto a un cambiamento, instaurare un nuovo modus operandi è difficile proprio per questo motivo, ovvero perché inconsapevolmente, dopo un certo lasso di tempo, saremo tentati di tornare al nostro solito modo di agire. E questo vale tanto nella vita privata quanto in quella professionale. Inoltre, un altro fattore spesso trascurato che ci tiene saldamente ancorati nel nostro “solco” (il video ironicamente e tragicamente lo racconta) è rappresentato dai nostri paradigmi ovvero da quelle «costellazioni di concetti, percezioni, consuetudini e valori che creano una particolare visione della realtà», secondo la definizione di T. Kuhn, noto epistemologo del XX secolo. In altre parole, osserviamo la realtà attraverso delle “lenti” che sono intrise dei nostri valori, delle nostre consuetudini, delle nostre esperienze.

Cambiare significa dunque rinunciare o quantomeno mettere in discussione valori, consuetudini ed esperienze, le nostre. Conoscere i paradigmi, non solo quelli individuali ma anche quelli organizzativi è senza dubbio il primo passo per scardinarli. Oggi come oggi le organizzazioni complesse hanno la possibilità di cambiare davvero nella misura in cui i comportamenti individuali cambiano, perché la somma dei comportamenti individuali darà vita al comportamento aggregato dell’organizzazione intera. Il contesto economico, storico, sociale e politico attuale evolve secondo due direttive chiave: rapidità e imprevedibilità. In tal senso dunque la capacità delle organizzazioni, e quindi delle singole persone, di cambiare diventa una competenza determinante. Non solo sarà necessario sapere anticipare i cambiamenti per guidarli e non subirli (Kodak, Blockbuster, Motorola ce lo hanno insegnato) ma anche sapere mettere in discussione i paradigmi individuali e organizzativi.

E allora come evitare l’effetto “braccia conserte”, scardinare i paradigmi e battere sul tempo il cambiamento stesso, anticipandolo? Naturalmente non esistono “ricette segrete” e in fondo il punto è proprio questo. Lo stimolo a e il governo del cambiamento sono spesso affidati ad alcune “ricette” come ad esempio l’adozione di micro comportamenti prescrittivi e/o un approccio manageriale lineare e deterministico. Girando sempre su sé stessi, vedendo e facendo sempre le stesse cose, si perde l’abitudine e la possibilità di esercitare la propria intelligenza.

«Lentamente tutto si chiude, si indurisce e si atrofizza come un muscolo», scriveva Albert Camus. E se oltre ai micro comportamenti (coerenti con il cambiamento che vogliamo vedere realizzato) fossero chiari anche i criteri (dal greco krino ovvero separare, scegliere) che guidano quei comportamenti? E se il manager non si limitasse a “prescrivere” questi comportamenti ma provasse anche a creare e governare dei contesti generativi all’interno dei quali lasciare spazio e autonomia di pensiero e azione ai propri collaboratori? Facciamo un esempio che si riferisce al video: limitarsi a chiedere a un collaboratore di cambiare mansione in virtù di legittime necessità organizzative potrebbe rivelarsi inefficace; esplorare, meglio se insieme al proprio collaboratore, non solo paradigmi e stato d’animo rispetto alla novità, ma anche le ragioni del cambiamento richiesto e contemporaneamente creare un contesto affinché possa sperimentare direttamente la nuova mansione potrebbero sortire effetti migliori poiché si agirebbe sulla responsabilizzazione di pensiero e di azione del proprio collaboratore.

Resistenza passiva e... ad oltranza

A un certo punto ho fatto riferimento al solito “solco” nel quale ricadiamo dopo avere tentato di cambiare qualcosa nelle nostre vite private e professionali. Ebbene, il verbo delirare, etimologicamente parlando, significa proprio uscire dal solco. Abbandonare la zona di confort non è semplice, ma con criterio e nel contesto appositamente creato “delirare” sembra essere più a portata di mano. Pertanto... delirate gente, delirate!

* Consultant Newton Management Innovation Spa

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