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Dalla condivisione alla formazione: il vademecum per creare engagement

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Dalla condivisione alla formazione: il vademecum per creare engagement

Se la soddisfazione sul posto di lavoro è un elemento critico e decisivo per puntare a massimizzare produttività ed efficienza, da dove occorre partire per creare “engagement” all’interno di un’organizzazione? Dal ridurre ai minimi termini il numero degli addetti “non coinvolti”. La ricetta è di Alberto Ribera, Professor of Managing People in Organizations presso la IESE Business School, intervenuto come speaker all’ultima edizione dell’Hr Global Summit organizzato a fine novembre da The European House Ambrosetti a Milano. La questione è, come immaginabile, tutt’altro che trascurabile e lo si evince anche da alcuni numeri.

«In Europa – ha spiegato Ribera - c’è una crisi di engagement ed è particolarmente acuita se guardiamo al solo campione dei millennial». In Italia il partito degli scontenti è il 68% del totale, rispetto al 14% di coloro che assicurano di andare al lavoro felici. Le conseguenze dell’elevato tasso di “non engagement” sono diverse: minore produttività da una parte, aumento dello stress dei dipendenti e dei costi di gestione del personale dall’altra. Volendo quantificare l’impatto economico del fenomeno e avere un’idea del danno causato da “malattie” riconducibili all’insoddisfazione della forza lavoro ecco un altro dato evidenziato dal professore spagnolo: 26 miliardi di sterline. Una cifra enorme.

Cosa deve dunque fare un leader, e nello specifico un Hr manager, per favorire l’engagement? Il primo passo, questo il vademecum tratteggiato da Ribera, è quello di non demotivare il dipendente, di non “danneggiarlo”. Il modello da seguire si chiama “positive leadership”, che lavora sulle devianze positive del soggetto e non solo su quelle negative, trasformando le negatività in positività. Come? Equilibrando i carichi di lavoro rispetto alle risorse disponibili, eliminando eventuali turbative di natura personale, perseverando una cultura del perdono per gli errori commessi e valorizzando i contributi offerti dal lavoratore, azzerando le disconnessioni e i disallineamenti all’interno del team di lavoro e aumentando le correlazioni, garantendo trasparenza e percezione della correttezza. A questo insieme di attività e pratiche se ne aggiunge un secondo, che Ribera ha sintetizzato nel concetto di “learning organization”, e cioè un modello che prevede formazione e mentoring, coaching e spazi per sperimentare nuovi progetti.

«L’azienda deve avere tolleranza per gli errori e per i fallimenti, coltivando una cultura strutturata del feedback attraverso un modello di condivisione. Tempo, attenzione e presenza sono i cardini per creare engagement nel singolo individuo: la fiducia nelle persone è fondamentale, altrimenti l’alternativa è la paura nell’attività di comando. E questo è il difetto forse più grave per un leader». In altre parole il management deve avere le idee chiare e la capacità per individuare le qualità migliori di ogni singolo componente dell’organizzazione, dagli addetti più esperti ai millennials appena assunti, per cui i fattori più importanti per sentirsi coinvolti sono (non a caso) la motivazione e la chiarezza delle aspettative di carriera.

Le aziende che sanno influenzare positivamente il benessere dei dipendenti, che sanno coinvolgerli sui risultati ottenuti dall’azienda sono di conseguenza quelle che ottengono maggiori risultati in termini di engagement. Ma “fare engagement” non è un compito banale. Così come non lo è neppure attrarre e trattenere i talenti migliori, che secondo Ribera rimane una delle «priorità per ogni organizzazione. Nell’era della robotica la componente umana rimane un vantaggio competitivo in termini di empatia, sensibilità, capacità di creare e gestire relazioni, sviluppare un circolo virtuoso di condivisione. Ogni azienda, in tal senso, ha necessariamente bisogno di figure coraggiose che si comportino da leader, per vincere anche lo scetticismo che aleggia sul mercato».

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