“I cervelli sono come cuori, vanno dove sono apprezzati” (Robert McNamara, ex presidente di Ford Motor Company). Cosa significa questa frase per le aziende? Come attrarre, “sedurre”, coinvolgere e far rimanere fedele un dipendente che riteniamo un match perfetto per la nostra organizzazione? Questa e altre domande simili costituiscono il focus di una strategia di employer branding intesa in senso lato, cioè non soltanto come una strategia di marketing esterno – sul mercato di lavoro – per farsi scegliere dai migliori talenti.
Il vero gioco dell'employer branding sta nella creazione e mantenimento della fiducia, del coinvolgimento e della fedeltà di un dipendente. Seguendo l’analogia con i rapporti di coppia, il processo di selezione è il reciproco corteggiamento mentre la lettera d’assunzione è il «mettersi insieme», che non stabilisce però il tipo della futura relazione, che può spaziare da un matrimonio a un semplice frequentarsi in una relazione liquida, come definisce questo tipo di rapporti lo sociologo Bauman. Proviamo a ragionare su come conquistare i migliori individui in ottica di un loro “matrimonio” con l’azienda in un mercato che è liquido e caratterizzato dalla guerra per i talenti.
Occorre, innanzitutto, mettere il dipendente al centro dell’organizzazione, proprio come si fa con il cliente esterno. Metterlo al centro vuol dire dedicargli attenzione, ascoltarlo e soddisfare i suoi bisogni. Sembra un’utopia? Beh, fatto sta che non abbiamo scelta se vogliamo che le persone diano il loro massimo. Le ricerche ormai da anni ci dicono che la maggior parte dei dipendenti delle aziende non si sente coinvolta (solo il 13% lo è, pensate al potenziale sprecato!). Anche gli ambiti di ricerca più innovativi come le neuroscienze dimostrano quanto lo stile partecipativo del capo (a differenza di quello direttivo) nei confronti di un collaboratore contribuisca a generare maggior sintonia tra i due individui e, di conseguenza, aumenti la performance di un dipendente.
Il contributo di una strategia di employer branding alla messa a terra del concetto di centralità del cliente interno è prima di tutto l’identificazione dell’employee value proposition (EVP). Si tratta della proposta di valore per il dipendente che rispecchia l’interno dell’organizzazione (cosa vuol dire lavorare per una specifica azienda) e allo stesso tempo costituisce la promessa che l’azienda fa ai potenziali e reali candidati. È la somma di tutto ciò che le persone sperimentano e ricevono dall’azienda: dalla soddisfazione intrinseca legata al lavoro svolto all’ambiente, leadership, colleghi, compensi, cultura organizzativa e altro ancora. Si tratta di quanto l’azienda soddisfa i bisogni delle persone e le loro aspettative. Una forte EVP attrae grandi talenti come i fiori attirano le api. Una forte EVP entusiasma le persone cosicché si impegnino sempre a dare il loro meglio. È quello che le persone vivono realmente in azienda, giorno per giorno.
La strategia di employer branding va quindi vista in una duplice dimensione: interna ed esterna, con un peso maggiore sulla prima perché solo in quel caso è sostenibile. È inutile, in fase di reclutamento e selezione, fare promesse che poi vengono deluse. Questa strategia sicuramente non porterà al matrimonio, ma alla rottura del contratto psicologico instauratosi all’inizio del rapporto lavorativo.
Gli elementi di una strategia di employer branding di successo e i suoi principali vantaggi possono essere rappresentati in questo modo: è chiaro che per una strategia di employer branding sostenibile ci deve essere coerenza tra le due dimensioni. I vantaggi per il business, ma anche l’aspetto etico, sono evidenti. Ancora più critiche sono le conseguenze di uno scenario opposto: quando vi è un’incoerenza tra quello che dichiariamo – cioè come comunichiamo il nostro employer brand – e i reali comportamenti delle persone all’interno dell’organizzazione. Basta guardare l’ironico video pubblicato insieme a questo articolo per capirlo.
* Consultant, Newton Management Innovation Spa
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