Quando cerchiamo lavoro, anche se qualche volta non ne siamo consapevoli, ci muoviamo sulla base di una strategia. In estrema sintesi le strategie di ricerca di lavoro possono essere tutte ricondotte a due orientamenti principali: strategie orientate alla persona e strategie orientate al mercato. La distinzione è molto intuitiva. Se quando cerco lavoro la prima cosa che faccio è guardarmi allo specchio e chiedermi «Quali sono i miei punti di forza? Cosa mi piacerebbe fare?», sto utilizzando una strategia orientata alla persona. Se invece la prima cosa che faccio è chiedermi «Cosa offre il mercato del lavoro? Quali sono le figure più ricercate?», sto utilizzando una strategia orientata al mercato.
A cosa serve questa distinzione? Istintivamente potremmo pensare che non sia così preziosa, considerando che alla fine si tratta semplicemente di individuare un punto d’incontro tra aspirazioni personali e reali esigenze del mercato. E invece la distinzione è importante perché influenza concretamente la dinamica e dunque l’esito della ricerca di un nuovo lavoro. Le due strategie si equivalgono solo in un sistema economico in cui la maggior parte dei lavori sono caratterizzati da mansioni esecutive e ripetitive, e in cui dunque un lavoro vale l’altro. In un mondo del lavoro come quello del terzo millennio, invece, in cui siamo tutti chiamati a essere speciali, a fare la differenza, a resistere ad un enorme stress fisico e mentale sulla nostra performance personale, adattarsi passivamente alle richieste del mercato e sperare di trovare per caso l’opportunità giusta per noi è una pia illusione.
Se cerchiamo un lavoro che duri, che ci realizzi e che ci dia garanzie di stabilità quel lavoro ci deve rispecchiare, ci deve calzare a pennello, deve valorizzare i nostri punti di forza. Per trovarlo occorre quindi partire dall’analisi personale di ciò che siamo, di ciò che ci piace, di ciò che sentiamo di saper fare in modo unico.
Inoltre se basiamo la nostra ricerca sull’osservazione del mercato restringiamo il «territorio di caccia» agli annunci, alle cosiddette «posizioni aperte». Ma gli annunci coprono una quota assolutamente marginale del fabbisogno di lavoro da parte delle aziende. Non tutti coloro che hanno bisogno di assumere hanno pubblicato annunci o coinvolto agenzie o società di recruiting. Non solo, non tutti coloro i quali avrebbero bisogno di assumere sono perfettamente sicuri di doverlo fare. Di più: molti avrebbero bisogno di assumere, ma non se ne accorgono. Soprattutto nel mondo delle piccole e medie imprese.
In questo senso la domanda di lavoro da parte delle aziende spesso è latente e deve essere semplicemente stimolata. Tocca a noi accendere la scintilla e riusciamo a farlo solo se, conoscendo perfettamente il valore unico che possiamo portare ad un manager o ad un imprenditore, solletichiamo il suo appetito. Cosa significa allora concretamente per te adottare una strategia di ricerca basata sulla persona e non sul mercato?
La prima conseguenza è che quando decidiamo di cercare un nuovo lavoro non dobbiamo guardare gli annunci. Dobbiamo vincere l’ansia che ci porterebbe a compulsarli ossessivamente alla ricerca vana dell’annuncio perfetto. Dedichiamoci prima ad analizzare in dettaglio cosa desideriamo davvero e cosa possiamo fare davvero in modo speciale. Solo successivamente, in una condizione di sicurezza e consapevolezza, andremo a vedere cosa c’è sul mercato.
La seconda conseguenza è che la maggior parte del tempo che dedichiamo alla ricerca di un nuovo lavoro deve essere indirizzata alla generazione proattiva di opportunità: dobbiamo essere noi a bussare alle porte dei potenziali datori di lavoro e non aspettare che i potenziali datori di lavoro si facciano vivi con i loro annunci.
La terza conseguenza è che nel mercato del lavoro ciascuno di noi ha un unico profilo a disposizione. Spesso sentiamo dire che il curriculum deve essere di volta in volta personalizzato in funzione del destinatario. In base a questo principio ciascuno di noi dovrebbe avere una molteplicità di curriculum, di “facce”, di identità personali.
A chi sostiene questa tesi pongo due obiezioni:
1) Il nostro non è il tempo dei tuttologi, buoni per tutte le stagioni, i gusti e le latitudini. Non si può essere professionalmente tre cose diverse allo stesso modo. Ciascuno di noi ha «una sola faccia» e deve fare delle scelte. Poniamo di essere un profilo poliedrico. Sulla base delle nostre esperienze potremmo ricollocarci per esempio come programmatore o come esperto di web marketing, a seconda delle richieste di mercato. Quasi certamente un profilo ci piace più dell’altro, ci dà più soddisfazione, è un vestito che ci sentiamo meglio addosso. Scegliamo quel vestito e basta. Potremmo senz’altro trovare lavoro con un altro vestito, ma non sarebbe il “nostro” e alla fine non funzionerebbe, non durerebbe. Tutti ricordiamo quando eravamo innamorati e facevamo di tutto per piacere alla nostra spasimata con un continuo make up delle nostre abitudini. Quando l’amore non corrisposto è finito abbiamo realizzato che non eravamo noi ad essere “sbagliati”. Non era lei la persona giusta per noi. Avere un unico CV è garanzia della nostra autenticità. Noi siamo «quella cosa lì» e basta.
2) Linkedin e gli altri social sono sempre di più la nostra vetrina. Chiunque visioni il nostro CV, o senta parlar di noi, o legga una nostra mail di presentazione finirà con il digitare il nostro nome sul web. È importante che in questo caso si trovi una rappresentazione coerente, univoca e il più possibile stabile della nostra professionalità. Altrimenti la reazione di chi sta cercando informazioni su di noi sarà di confusione e perplessità: «Non capisco, è un direttore amministrativo o un consulente di finanza d’impresa? Boh! Se non riesce a spiegarlo forse non la sa nemmeno lui!». La nostra vita parallela su internet ci impone di avere dal punto di vista dell’identità professionale «un’unica faccia».
Insomma siamo condannati ad avere un unico CV ed un unico profilo professionale. Ecco perché è sempre più importante dedicarsi ad un profondo lavoro di elaborazione introspettiva prima di mettersi sul mercato: occorre chiedersi «Cosa mi appassiona?». «Cosa riesco a fare in modo speciale?». Prima dobbiamo scolpire la nostra identità professionale, e solo dopo andremo a verificare dove sta il nostro “pubblico” e come possiamo contattarlo.
* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring
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