Nei miei due articoli precedenti ho evidenziato quali sono le due prime domande strategiche che ci dobbiamo porre per decidere se è arrivato il momento di cambiare lavoro. La prima è: «Nel mio attuale lavoro ho la possibilità di fare la differenza, di produrre valore aggiunto?». La seconda: “Nel mio attuale lavoro ho la possibilità di vivere situazioni nuove e quindi di imparare? Esiste una terza domanda più semplice e più istintiva con cui tutti noi ci confrontiamo quasi quotidianamente: «Guadagno abbastanza?». E, ça va sans dire, a tutte le latitudini, in tutti i settori, a tutti i livelli la risposta è con pochissime eccezioni la medesima: «No, non guadagno abbastanza».
Certamente non guadagnare abbastanza costituisce un ottimo motivo per intraprendere la ricerca di un nuovo lavoro. Tuttavia siccome abbiamo imparato che nel nostro percorso di carriera occorre muoversi con la massima lucidità e razionalità, la domanda cruciale diventa un’altra: «Cosa significa abbastanza?», ovvero «Quale dovrebbe essere il giusto compenso per la mia attività?». Una volta il mondo era più semplice, c’erano tabelle, paletti, stringenti previsioni contrattuali: con il titolo di studio x nella casella dell’organigramma y si guadagnavano euro z. Il giusto stipendio era un’equazione incontestabile, che prevedeva una maggiorazione automatica con il passare del tempo, una sorta di adeguamento alla fedeltà, all’esperienza e alla fatica di andare avanti.
Certamente inquadramenti, mansionari e scatti di anzianità esistono ancora, ma rappresentano ormai un punto di riferimento puramente formale, in un mondo del lavoro sempre più difficile da incasellare, più liquido e meno sindacalizzato, in cui sia i datori di lavoro che i lavoratori chiedono che la produttività individuale sia riconosciuta e premiata in modo individuale.
Resta dunque la domanda: «Quale dovrebbe essere il giusto compenso per la mia attività? Cosa mi fa capire se sto oggettivamente guadagnando poco e se quindi è necessario cercare una nuova occupazione?». Una risposta a portata di mano potrebbe essere quella che fa riferimento al cosiddetto «valore di mercato», quello risultante da una qualsiasi indagine retributiva: quanto guadagna in media un direttore marketing con 15 anni di esperienza? E quanto un magazziniere con 10 anni di esperienza? E qual è la tariffa di un commercialista con 5 anni di esperienza? È facile stabilirlo, così come è facile stabilire il valore medio a metro quadro di una casa in Via Verdi. Ma questo numero poi serve davvero a qualcosa? Perché in Via Verdi ci sono mille appartamenti di tutte le tipologie, esattamente così come ci sono mille modi diversi di essere e di fare il direttore marketing, il commercialista, il magazziniere.
La verità è che più ci allontaniamo dai rigidi mansionari tipici di un’economia fordista, più ciascun profilo professionale tende a diventare unico e irripetibile. Esisteranno sempre di meno i ruoli e sempre di più le «interpretazioni dei ruoli». E alla fine quello che guadagneremo rappresenterà la spietata e unica sintesi di due fattori fondamentali: la rarità del nostro mix di competenze e il valore aggiunto prodotto. Inutile lamentarsi di quanto siano economicamente maltrattati anni di università e abilitazioni alla professione forense. Se siamo solo «un titolo di studio che cammina» si impone la legge della rarità delle competenze: «Competenze diffuse per quanto sofisticate hanno un valore scarso». Inutile quindi, per fare un esempio, lamentarsi per quanto siano economicamente maltrattati anni di approfondimento sulla biologia molecolare. Se consegnamo prodotti sul banco di una farmacia si impone la legge del valore aggiunto: digitare un codice e riempire una bustina non porta un surplus di valore al cliente.
La domanda con cui siamo partiti però resta ancora inevasa: «Guadagno abbastanza?». Non ci sono risposte definitive purtroppo,
ma mi piace segnalare due accorgimenti per riflettere in modo insieme critico e originale su quanto il nostro lavoro sia giustamente
valorizzato.
1) Calcoliamo quanto vale un’ora del nostro lavoro. Proiettate su un orizzonte temporale piccolo, le riflessioni sul valore del nostro tempo diventano spesso molto pungenti
e provocatorie. Ecco come si calcola. Partiamo da ciò che guadagniamo in un anno, dividiamo l’importo per il numero di giorni
lavorativi (probabilmente attorno ai 220) e poi ancora per 8, vale a dire il numero medio di ore giornaliere. Adesso moltiplichiamo
il risultato per 2, perché solo la metà delle nostre ore sono al massimo della produttività. L’elenco sottostante ci dà alcuni
riferimenti del nostro valore orario, a seconda delle fasce di reddito:
-15.000 euro all'anno = 17,04 euro all'ora;
-25.000 euro all'anno = 28,41 euro all'ora;
-50.000 euro all'anno = 56,82 euro all'ora;
-100.000 euro all'anno = 113,64 euro all'ora.
2) Scaviamo in profondità nel nostro autentico valore personale, quel valore che ci appartiene a prescindere dall’azienda per cui lavoriamo o dai clienti che abbiamo fidelizzato, in altri termini senza la rendita di posizione di cui senza accorgercene tutti i giorni godiamo.
Se siamo dipendenti chiediamoci quanto guadagneremmo tra sei mesi se oggi perdessimo il lavoro e fossimo costretti a cercarne uno nuovo.
Se siamo lavoratori autonomi chiediamoci quanto guadagneremmo tra sei mesi se per un qualche motivo perdessimo la metà dei nostri clienti fidelizzati o perdessimo la metà dei prodotti/servizi che eroghiamo.
Il nostro valore vero è quello che ci resta quando abbiamo perso le nostre rendite di posizione. Nel bene o nel male è da quel valore che dobbiamo partire per progettare lo sviluppo della nostra carriera.
* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring
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