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In Ima l’arbitro super partes che azzera i conflitti e pesa i ruoli

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In Ima l’arbitro super partes che azzera i conflitti e pesa i ruoli

Come si governa nella più assoluta pax interna e sindacale un’organizzazione letteralmente esplosa negli ultimi anni, con organici raddoppiati dal 2012 e oltre 6mila dipendenti sparsi in ogni angolo del pianeta, tra 45 stabilimenti produttivi e un’ottantina di filiali e agenzie commerciali in altrettanti Paesi? La ricetta del gruppo bolognese Ima, leader mondiale nelle macchine per packaging, ha ingredienti apparentemente comuni alle grandi multinazionali al top per reputazione, sostenibilità e Csr (Corporate social responsability) ma un risultato fuori dall’ordinario: azzeramento dei conflitti e una cultura di gentilezza e disponibilità, dagli operai alla famiglia azionista Vacchi, diventata un “marchio di fabbrica” del gruppo al pari del logo con il quadrato rosso spezzato. Non certo a discapito del business, che continua a crescere a doppia cifra anno su anno: la previsione per il 2018 è superare i 1.600 milioni di euro di fatturato (l’85% è export), più del doppio rispetto ai 761 milioni archiviati nel 2013, appena cinque anni prima.

Né le tensioni legate ai trend di crescita molto rapidi né i progetti pilota – una ventina – che si stanno sperimentando nel campo dell’Industry 4.0 e della fabbrica digitale sembrano scalfire l’equilibrio del modello Ima. E il merito è anche del ruolo fondamentale di “arbitro super partes” che il referente HR svolge lungo tutto il periodo di inserimento e crescita dei nuovi talenti, così da educare alla cultura Ima e consolidare l’assetto organizzativo. «Si tratta di un monitoraggio e un allineamento continui per facilitare la progressiva centratura a ruolo del dipendente. Ogni mese si fa un colloquio sia con il diretto interessato sia con il suo responsabile e si stila un report controfirmato da entrambe le parti. In questo modo emerge l’eventuale conflitto finché è a basso livello, perché spesso i problemi nascono dalla tendenza a schivare le discussioni. E con questo approccio per risolvere le incomprensioni sul nascere siamo arrivati nel giro di cinque anni al 99,7% delle conferme per i nuovi entrati», racconta Massimo Ferioli, direttore Organizzazione di Ima Group.

Una best practice che permette non solo di azzerare la conflittualità interna ma di trattenere talenti sempre più contesi sulla via Emilia, dove packaging e motor valley (ma anche food e tile) hanno una fame insaziabile di competenze tecnico-scientifiche. «Il nostro vantaggio organizzativo è che seppur presenti dagli Usa alla Cina con metà degli organici sparsi oltreconfine, all’estero non abbiamo sedi di dimensioni tali da dover duplicare la struttura HR di Ozzano dell’Emilia. Restiamo un’azienda italiana (e in Italia ci sono 3.200 dipendenti su 6mila, ndr) e il sistema-Emilia imperniato sulla filiera è il modello di riferimento e il laboratorio di sperimentazione per tutto il gruppo», spiega Ferioli, che gestisce il “villaggio globale” Ima con una squadra HR di appena 35 persone concentrata nel nuovo quartier generale.

Bolognese Doc, entrato in Ima nel 1998, quando la società fatturava 223 milioni con 1.700 dipendenti e cercava un ingegnere informatico con esperienza nell’integrazione e riorganizzazione di sistemi per governare la rivoluzione interna legata a It e tecnologie, Ferioli è diventato responsabile HR nel 2006 e oggi è uno dei tre super-manager globali (con deleghe ad It, qualità, sicurezza, facility) che garantisce le linee strategiche del gruppo. «Le tecnologie sono una commodity, una scienza più o meno certa, il successo passa invece delle persone – sottolinea –. Dopo la quotazione in Borsa (1995) e una volta completato il grosso progetto di cambiamento tecnologico che ha permesso a Ima, nel giro di un decennio, di passare da azienda familiare a industria multinazionale manageriale, ci si è posti il tema di quale obiettivo perseguire. E l’obiettivo individuato è stato ed è tuttora quello di una crescita importante, per linee interne ed esterne». Tutta la pianificazione, anche del personale e delle relazioni industriali, ruota attorno a questo obiettivo, che permette di ridurre la complessità in processi chiari e di fare scelte anche impopolari.

Se il punto di forza non sono più le tecnologie ma le persone, sono i processi per formare e sviluppare competenze l’asset strategico del gruppo. Ferioli ha lavorato un decennio per mettere a punto l’attuale architettura ordinata che oggi va sotto l’etichetta “Ima Academy” (un progetto formalizzato e non una realtà societaria autonoma). «Un ecosistema frutto di un lavoro paziente avviato nel 2007 con i sindacati (90% Fiom) per schematizzare tutti i ruoli presenti in azienda (un concetto diverso sia da mansione sia da posizione) basandoci prima sull’analisi dei repertori regionali e poi sulle specificità delle competenze richieste in Ima per quel lavoro – precisa Ferioli, che incontra i sindacati tre volte a settimana, pur avendo 38 società diverse da gestire –. Siamo arrivati nel 2012 a definire 37 ruoli interni, che incrociano saper fare e saper essere, legati per l’80% a nostre specificità, e che cambiano nel tempo, perché il tornitore di vent’anni fa è oggi un programmatore di macchine utensili». Ogni lacuna nel ruolo viene colmata grazie a un ricco carnet di formazione, con un monte ore in aula schizzato dalle 10mila ore del 2012 alle 100mila ore di quest’anno. «Attraverso un catalogo di oltre 230 tra corsi e master siamo in grado di “portare a ruolo” ogni neoassunto e di qualificare e aggiornare profili ad alto potenziale e manager, scegliendo dal menu», spiega il manager.

Investendo su training e nuovi talenti – 169 assunzioni lo scorso anno e ad altre 174 nei primi nove mesi del 2018 – Ima sta completando la metamorfosi da manifattura meccanica ad azienda di ingegneria e servizi: il 38% dei dipendenti oggi è laureato e il 49% diplomato. Così come la leadership mondiale conquistata negli impianti per imbustare tè (Ima controlla quasi il 70% del mercato) è rimasta iconica ma non è più il paradigma né industriale né organizzativo del gruppo, cresciuto negli ultimi vent’anni attraverso una fitta politica di M&A per acquisire in nicchie esterne, tecnologie, know-how e quindi mercati e prodotti non appartenenti alla sua storia. «Oggi sono l’interdisciplinarietà e la contaminazione di competenze delle macchine per il pharma a indicare la rotta, anche nella gestione del personale», spiega Ferioli, che siede in ogni Cda delle aziende acquisite o partecipate.

Sulla scia di ogni acquisizione in Italia parte a Ozzano un lavoro paziente di inclusione e integrazione delle nuove società e dei loro organici, «che porta un benefico effetto a cascata di arricchimento, strategico nel mercato delle macchine automatiche». Così come vengono integrati i subfornitori della filiera italiana(35 quelli di classe A partecipati direttamente da Ima con quote tra il 20 e il 30% del capitale), coinvolti nei percorsi di formazione e qualità Ima assieme ai dipendenti diretti. «Non ci sono tempi predefiniti per l’integrazione, ma non ho mai incontrato resistenze importanti anche perché la bontà del modello imprenditoriale impostato dal presidente Alberto Vacchi è riconosciuta ex ante, quando si sceglie di entrare nel gruppo», precisa Ferioli.

L’efficiente modello “made in Bo” mal si addice però alle sedi estere, «dove siamo meno direttivi e più di servizio e supporto ai manager locali, che incontriamo in media due volte l’anno – conclude Ferioli –. Gli stessi ruoli aziendali Ima all’estero non funzionano». In America il lavoratore si attiene alla job description al limite della stupidità e quindi va modificato il mansionario. In Cina la gerarchia è tutto nell’organizzazione di un sistema, senza considerare che ogni provincia ha regole proprie per i tirocinanti che limitano molto la mobilità dei talenti. In India si ragiona per caste, ma anche nella vicina Germania è impossibile uniformare i processi HR, perché ogni Land ha un contratto diverso».

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