Nel 2022, il 65% della forza lavoro europea, e quindi 123 milioni di individui, sarà composta da mobile worker. In Italia i professionisti che opereranno in mobilità saranno 10 milioni. Le stime sono della società di ricerca Idc e vanno nel solco di un dibattito noto: la tecnologia e la digitalizzazione dell’esperienza del consumatore/utente stanno rivoluzionando il modo di lavorare, l’organizzazione nel suo insieme e gli spazi fisici e logici dell’azienda. Ed il cambiamento è così evidente, secondo gli analisti, che il paradigma del «digital workspace» - e quindi spazi di lavoro online dove ogni individuo può accedere in maniera univoca alle informazioni indipendentemente dal luogo, dal momento o dal dispositivo utilizzato – ha già preso il posto di quello della postazione fisica di lavoro, spostando il focus sul concetto di «chi sei/cosa fai» rispetto al «quando entri/quando esci/dove sei».
Ma quanto questo paradigma è radicato nelle aziende italiane? Carlo De Angelis, architetto e founder di Dec (azienda specializzata nella progettazione di interni) è dell’idea che in Italia il lavoro agile non è diffuso così come si vorrebbe far credere. Essere “smart”, questa la sua filosofia, non significa semplicemente lavorare uno o due giorni a settimana da casa, «perché lo smart working è molto di più: è un nuovo approccio al tradizionale modo di lavorare e di collaborare all’interno di un’organizzazione. E presuppone significativi cambiamenti».
Lei sostiene che lo smart working, in Italia, non esiste: eppure vi sono casi concreti di aziende che lo applicano.
È un’idea che in Italia piace, soprattutto ai lavoratori, così come dimostrato da un recente studio condotto da Randstad Workmonitor, in cui si evince come più di otto lavoratori su dieci sono a favore dello smart working. In concreto, però, solo una bassa
percentuale di grandi aziende lo applica: nel 2017, come rileva l’Osservatorio del Politecnico di Milano, erano il 36% (su un campione di 206, ndr.). L’interesse c’è, ma non è ancora accompagnato dallo sviluppo di una nuova cultura
manageriale, per cui solo l’8% degli addetti si può definire «smart worker».
Il quadro normativo favorevole può invertire il trend?
Finché i manager non comprenderanno la vera essenza del lavoro agile, questo nuovo modello di lavoro troverà difficoltà a
diffondersi. L’ostacolo principale sta nel fatto che prevale ancora l’idea di voler controllare il dipendente, di tenerlo
ancorato alla sedia come se la sua produttività fosse direttamente proporzionale alle ore di lavoro passate di fronte allo
schermo. Mettendo il lavoratore al centro dell’organizzazione, al contrario, lo si rende più autonomo e responsabile anche
riguardo la possibilità di scegliere il luogo, gli orari e gli strumenti con cui svolgere le proprie mansioni.
Chi in azienda dovrebbe allora farsi carico di questo cambiamento? L’HR manager?
Per accogliere questo nuovo modello organizzativo occorre partire dalla formazione manageriale, perchè sono i dirigenti a
determinare l'approccio lavorativo all'interno dell'azienda. Reputo quindi opportuno istituire dei corsi a livello universitario
ad hoc, ma la spinta al cambiamento deve comunque partire dai vertici aziendali, che sono spesso i primi a non conoscere le
potenzialità del lavoro agile. Quel che occorre alle nostre aziende è una visione del futuro più previdente.
Quali sono, a suo avviso, le “best practice” per un progetto di smart working?
La tecnologia digitale deve essere regina del nuovo concept di ufficio: se non riesco ad accendere celermente il computer
e ho difficoltà a condividere documenti con i colleghi per via del collegamento Wi-Fi lento o instabile, c’è un impatto negativo
sulla qualità del mio lavoro. Investendo per un ufficio ben strutturato ed efficiente si avranno dei benefit sul business
aziendale: anche in pochi metri quadrati, per esempio, si possono organizzare open space e si può introdurre il concetto di
«scrivanie nomadi» per generare efficienza sui costi. È fondamentale comprendere che la disposizione di postazioni mobili
abitua i worker all’idea di doversi spostare dalla propria scrivania; in questo modo il dipendente sarà pronto, in seguito,
a lavorare in ambienti esterni al proprio ufficio, come casa propria.
Ci sono differenze in relazione alle dimensioni dell’organizzazione?
Credo possa essere un approccio trasversale, che riguarda sia le grandi aziende che le Pmi e le pubbliche amministrazioni.
Se confrontiamo la situazione italiana con altri Paesi cosa emerge?
Siamo indietro, peggio di noi solo Grecia e Cipro. Nel Nord Europa c’è una maggiore diffusione dello smart working perché
esiste una predisposizione culturale che considera il lavoro da casa impegnativo e serio quanto lo sia svolgerlo in ufficio.
Se in Italia non scardiniamo questa concezione di “sorveglianza” del lavoratore sarà impossibile fare il salto di qualità.
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