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Competenze digitali, il problema sono i pochi laureati e specialisti Ict

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«skill gap»

Competenze digitali, il problema sono i pochi laureati e specialisti Ict

«Quelli nell’Information e communications technology sono posti di lavoro pregiati e qualificanti, che richiedono oggi un percorso di aggiornamento sostenuto e veloce. Ma c’è un evidente problema di non soddisfacimento di domanda di queste professioni e questo problema arriva da lontano, dagli anni 2000». Il prologo alla presentazione dei risultati dell’Osservatorio delle Competenze Digitali 2018 (condotto da Aica, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter Italia in collaborazione con il Miur e l’Agid) a firma di Franco Patini, membro del Comitato scientifico dello stesso Osservatorio e di Confindustria Digitale, inquadra in modo esplicito una tematica di stretta attualità che ha radici profonde.

Lo «skill gap», così come lo si definiva alla fine degli anni '90, è un fenomeno attuale e si manifesta attraverso criticità ben definite: pochi i laureati in materie scientifiche e non sufficienti a soddisfare la domanda di impiego delle aziende impegnate a cavalcare la trasformazione digitale; pochi iscritti alle facoltà legate all’informatica; formazione non adeguata alla velocità di aggiornamento delle competenze che il mercato richiede; scarsa comunicazione fra aziende, famiglie e territorio; offerte di lavoro non sempre attrattive. Il quadro è preoccupante e induce a rischi ancora sottovalutati.

«Senza queste professionalità - dice infatti Patini - non si fa trasformazione digitale e non c’è piano di sviluppo che tenga: l’onda lunga delle nuove competenze, e di quelle digitali in particolare, deve invece arrivare ovunque, anche alle medie e piccole imprese dei distretti meno sviluppati. Se la situazione non si sblocca, subito, il problema rimarrà tale anche fra dieci anni».

I numeri dello «skill gap»
Le principali evidenze dell’Osservatorio che giustificano toni allarmistici e preoccupazione sono in sintesi le seguenti. Nel 2017 sono stati registrati 64mila annunci di lavoro online rivolti a profili Ict (il 7% in più rispetto al 2016 e un numero più che doppio rispetto a quattro anni fa) e le stime per il triennio 2018-2020 parlano di potenziali 88mila nuovi posti di lavoro relativi a figure specializzate in nuove tecnologie. Il gap fra domanda e offerta è dimostrato da numeri che vedono nel 2018 un fabbisogno delle aziende oscillante fra le 12.800 e le 20.500 figure, mentre l’Università dovrebbe laurearne poco più di 8.500 rispetto ai 7.700 del 2017. Gli specialisti in informatica e ingegneria informatica (Info), invece, si fermano a 4.460. La forbice per quest’anno, nella situazione peggiore, arriva dunque al 58% e rischia di ampliarsi drasticamente nell’arco del prossimo triennio, quando i possibili profili richiesti dovrebbero superare complessivamente quota 70mila.

La percezione (errata) dei laureati
Da Marco Ferretti dell'Università di Pavia (Cini Lab Cfc) arriva invece la sottolineatura forse più importante, relativa per l’appunto alla natura (e alla quantità) delle figure pronte ad entrare nel mercato del lavoro. Ebbene, negli ultimi cinque anni la media è stabile ed è nell’ordine delle 7/8mila figure l’anno, ma i laureati specializzati in discipline informatiche sono solo il 2,3% del totale nazionale. E c’è un altro problema di fondo. «La tendenza a terminare gli studi dopo la laurea triennale “Info” è ancora in crescita anche se meno accentuata - ha osservato in proposito Ferretti – perché persiste la percezione della certezza dello sbocco professionale. E al cospetto di immatricolazioni nelle facoltà Ict che continuano ad aumentare corrisponde un forte tasso di abbondono nel percorso di studi».

Si laurea infatti solo il 40% dei nuovi iscritti triennali e nel computo complessivo fra tutti i percorsi di studio, su oltre 26mila iscritti nel 2017 si sono laureati solo 7.700 studenti. Come invertire la tendenza? L’istituzione di lauree mirate in materie come Data Science, Big Data e cybersecurity è solo un primo passo. Il vero scoglio da superare, a detta di Ferretti, «è la scarsa percezione degli studenti circa l’utilizzo delle proprie competenze dentro l’azienda, la convinzione che fare il compito dello sviluppatore sia unicamente quello di creare app e non invece progettare applicazioni al servizio di specifici processi». E non va infine dimenticato che le donne, attualmente, rappresentano solo il 24% dei laureati Ict.

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