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Con la riqualificazione post crisi ritrova posto il 60% degli addetti

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I tavoli del mise

Con la riqualificazione post crisi ritrova posto il 60% degli addetti

(Imagoeconomica)
(Imagoeconomica)

Arriva un giorno in cui scopri che non può più essere come prima. Che devi accettare di cambiare il logo sulla tua maglietta, percorrere un tragitto diverso per andare a lavorare, chiedere il primo caffè della mattina a un altro barista. Nuovi semplici gesti quotidiani, difficili da accettare per chi è abituato da anni alla sicurezza della routine, e spesso rifiuta l’idea di cambiare, di ricominciare da un’altra parte, in un’altra maniera; anche se è consapevole di non avere alternative. La nuova vita dei lavoratori italiani passati in questi anni attraverso le cure della task force anti-crisi del ministero dello Sviluppo nasce anche da questo: dalla capacità di tutti gli stakeholder di mettere a fattore comune esperienze e volontà diverse, a partire proprio dai diretti beneficiari dell’intervento, i lavoratori.

«Il primo intervento urgente è sempre quello psicologico, motivazionale» spiega Stefano Scaroni, partner e fondatore di Ems, una delle società di consulenza che negli ultimi anni, insieme ai tecnici del Mise, è riuscita a immaginare su carta, e poi tradurre in concreto, un nuovo futuro per decine di migliaia di persone coinvolte in situazioni di crisi. Si tratta di oltre 11mila persone su circa 18mila coinvolte in 38 tavoli di crisi negli ultimi sei anni, dal 2012 al 2018; 3.700 su 5.800 in 16 aziende dal 2008 al 2011. Situazioni «nove su dieci drammatiche» spiega Scaroni, perchè «il nostro paese fatica a riconoscere come possibile un processo di reindustrializzazione, e soprattutto, i primi a non riconoscere questo futuro alternativo sono gli stessi lavoratori».

Il passaggio cruciale è proprio questo. «Dopo avere fabbricato per anni lampade alogene, per fare un esempio - spiega - non è impensabile che un operaio possa magari aggregarsi a una squadra che si occupa invece di realizzare telecamere a circuito chiuso. L’azione del Mise ha miscelato in questi anni esperienza, conoscenza del mercato, moral suasion e una buona dose di caparbietà, nella convinzione che, quando è ormai assodato che un’azienda non ha più spazio sul mercato, sia giusto creare le condizioni per favorire l’insediamento di nuova imprenditoria, con idee in grado di catalizzare maggiore appeal.

Tra il dire e il fare c’è però di mezzo un universo di azioni da coordinare. Si è reso necessario un metodo, che si è via via affinato, in questi anni, nelle stanze di via XX settembre. «Negli ultimi anni abbiamo iniziato a riunire intorno al tavolo tutti gli stakeholder, dai lavoratori alle istituzioni locali, insieme ai rappresentanti dell’azienda intenzionata a chiudere e gli imprenditori interessati a subentrare - spiega Gianpiero Castano, tracciando il bilancio di un’attività che ha guidato per 11 anni, dal 2008 fino a pochi giorni fa -. Il metodo ha funzionato, in questi anni ha dato risultati, visto che abbiamo continuato a usarlo per cercare di risolvere le principali situazioni di crisi anche nelle ultime settimane».

Coinvolgere in maniera attiva tutti gli attori non è certo una passeggiata. «Paradossalmente, è più facile convincere le multinazionali che gli investitori italiani - spiega Castano -. Gli approcci devono essere diversi caso per caso: l’italiano è generalmente abituato a usare gli strumenti degli ultimi decenni, è avvezzo ai tempi lunghi della cassa integrazione. L’investitore internazionale spesso vuole invece chiudere l’accordo in poche settimane, ed è anche disposto a mettere in campo risorse importanti per finalizzare un’intesa rapidamente».

Il successo dell’approccio del Mise conferma però l’importanza di avere a disposizione nuovi strumenti per gestire la crisi. «Fino a oggi si è proceduto in maniera semi-artigianale - spiega Castano -. Visti i risultati, sono maturati i tempi per costruire un sistema di norme che impegnino in maniera cogente gli stakeholder a determinati comportamenti. Esistono già esperienze simili in Germania e Francia, qualcosa c’è anche in Gran Bretagna. Una soluzione potrebbe essere una proposta di legge che possa coinvolgere anche staekholder fino a oggi rimasti ai margini, come Inps, Agenzia delle entrate, o gli istituti bancari».

Ma cosa significa per i lavoratori, a livello pratico, intraprendere un percorso come quello delineato dal Mise? Lo schema costruito dopo anni di applicazione, è ormai standardizzato. Ai lavoratori si chiede di solito la disponibilità a discutere nuove condizioni economiche e una struttura diversa del costo del lavoro, nuovi regimi di orario, maggiore flessibilità, defalcando alcuni benefit che poi possono essere eventualmente ripristinati legandoli a incrementi di produttività. Una volta presi in carico da società specializzate, come Ems, «iniziamo ad avviare dei focus group - spiega Scaroni - per capire lo stato di ricarica delle batterie e creare nelle varie aree una predisposizione al cambiamento. In molti casi si tratta di lavoratori che negli ultimi 5 anni hanno lavorato poco e in condizioni psicologiche non ottimali, stretti tra gli ammortizzatori sociali e la paura del futuro. Gli imprenditori vogliono un capitale umano pronto al cambiamento, preparato non solo sul piano tecnico ma anche su quello motivazionale».

Il secondo step è legato all’aspetto formativo. «Analizziamo i gap e cerchiamo di riempire i buchi - prosegue Scaroni -. In altri casi invece bisogna riconvertire pesantemente: succede spesso con la meccatronica, in Italia abbiamo molti bravi meccanici, ma c’è carenza di competenze nell’elettronica». Spesso si tratta solo di un problema di matching. «Ci sono traiettorie di sviluppo interessanti, per chi ci vuole credere - spiega Scaroni -. In questa ottica, dal nostro osservatorio, vediamo opportunità di reshoring per imprenditori italiani che vogliono avere un migliore controllo su produzione e qualità nel made in Italy: è il caso dell’automotive, dell’elettronica ad alto valore aggiunto, della subfornitura legata all’industria della moda. Settori che possono essere interessati ad avviare percorsi di riconversione se si è in grado di offrire una migliore ottimizzazione dei processi e un footprint logistico allettante».

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