Le ragioni per le quali credo che il lusso sia una cosa buona, e non vada demonizzato, sono sostanzialmente tre: perché i prodotti di fascia alta rappresentano un settore determinante per la nostra economia; perché acquistandoli si fa un gesto responsabile ed etico, non il contrario; perché il vero lusso è sostenibile, rispetta le persone e l’ambiente. L’ultima edizione di Altagamma Monitor ha stimato in 1.200 milioni di euro nel 2018 il mercato globale dei prodotti di fascia alta e la previsione per il 2019 è di un’ulteriore crescita del 5%: questo ha ricadute importanti sull’Italia, che storicamente è uno dei Paesi leader nel segmento.
Infatti il mercato del lusso non comprende solo abbigliamento, calzature, accessori, settori in cui il Sistema Moda Italia gode di un ottimo posizionamento, ma anche altri prodotti nei quali aziende italiane primeggiano, come automobili, vini, arredo e design, yachts. Fino a che ci saranno clienti facoltosi disposti a pagare un prezzo premio pur di avere un prodotto di qualità, Made in Italy, questo settore continuerà a dare il suo importante contributo all’economia del nostro Paese. È però fondamentale che siamo in grado di garantire al mercato il meglio che le nostre competenze e le nostre filiere possono offrire.
Seconda ragione: il lusso aiuta a mettere in pratica uno dei principi del consumatore etico, acquistare focalizzandosi sulla qualità e non sulla quantità. Non a caso, la vecchia saggezza popolare diceva che «chi più spende, meno spende». Comprare meno e in maniera più responsabile è possibile, anche quando si tratta di beni che per essere prodotti hanno inevitabilmente un impatto sull'ambiente.
Fast-fashion e lusso sono due ambiti chiaramente distinti. Se nel fast-fashion siamo ormai arrivati al punto di avere 52 stagioni in un anno, cavalcando in maniera sfrenata il consumismo, il modello proposto da alcune case di lusso privilegia un design senza tempo, per prodotti che possano essere utilizzati più stagioni senza far sentire i loro proprietari «fuori moda». La Kelly di Hermes è di moda dal 1956 ed è stata disegnata negli anni ’30, mentre i marchi che «buttano nel cestino» la collezione lanciata solo 6 mesi prima non sono destinati a fare la storia con oggetti dal design iconico.
Peraltro un prodotto che debba essere utilizzato per una stagione non ha bisogno di essere particolarmente resistente, mentre il prezzo pagato per un bene di lusso si giustifica solo se è ben fatto e duraturo. I concetti di «timeless design» e “durability” sono al centro del motto di Patek Philippe: «You never actually own a Patek Philippe. You merely look after it for the next generation».
Infine, il lusso sostenibile non è un ossimoro. E non è nemmeno una novità. Nel secondo dopoguerra le sanzioni imposte all’Italia rischiarono di minare alle radici il sogno del miracolo economico italiano. Ma aziende come Gucci non potevano arrendersi: nel 1947 l’azienda fiorentina lanciò la Bamboo Bag, borsa con manici di canna di bambù, materiale che poteva essere importato dal Giappone senza restrizioni. Pochi anni dopo, la borsa sarebbe diventata l’oggetto del desiderio delle attrici più famose al mondo. A riprova del fatto che il trend di usare prodotti poveri o più sostenibili viene da lontano.
La sensibilità dei consumatori delle generazioni Y e Z, molto più attenti dei loro genitori all’impatto ambientale e sociale di ciò che acquistano, costituisce oggi una vera sfida per le aziende che producono beni di lusso. Non si tratta di una moda temporanea, bensì di un processo irreversibile. Verrà un giorno in cui potremo finalmente dire: «Se non è sostenibile, allora non è vero lusso». Il tema della sostenibilità, per altro, non è solo ambientale. Il disastro di Rana Plaza - nel quale 6 anni fa morirono a Dacca oltre 1.100 lavoratori e 2.500 furono feriti per il crollo di un palazzo che ospitava la produzione di noti marchi occidentali di abbigliamento - ha sollevato l’attenzione del mondo sulle condizioni di lavoro nelle filiere del fashion.
La fascia dei prodotti di lusso è proprio quella che, per sua stessa natura, ha da sempre più rispetto delle persone. Ne è un esempio il “re” del cashmere, Brunello Cucinelli: nello stabilire l’intera produzione all’interno dell’antico borgo di Solomeo, l’imprenditore perugino ha messo al centro della propria strategia il benessere dei collaboratori, dimostrando nei fatti che, per un’azienda basata sull’artigianalità, i dipendenti sono l’asset più prezioso.
Un prodotto di alta gamma italiano è realizzato in Italia con il rispetto di regole molto restrittive, non passa di moda dal punto di vista estetico e dura di più per la sua qualità superiore: dunque, impatta cento volte meno sull’ambiente di altri che costano poco, ma inquinano pesantemente e hanno vita brevissima. Se la maglietta che avete addosso costa quanto un cono gelato, vi siete chiesti come fa l’azienda che ve l’ha venduta a pagare adeguatamente gli operai che l’hanno realizzata?
* Direttore del Master in Global Luxury Management della School of Management del Politecnico di Milano
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