«Il primo re» è un film italiano molto originale: un mini-kolossal che ha fatto e farà discutere per numerosi motivi. In primo luogo per l'argomento, il mito di Romolo e Remo, un tema impresso nella nostra memoria scolastica e al tempo stesso poco conosciuto. Poi per la realizzazione - insolita per un film italiano - estremamente cruda e realistica, ispirata a pellicole come Apocalypto e The Revenant. Infine per la lingua: un «proto-latino» assai credibile, messo a punto da un gruppo di ricercatori dell’Università la Sapienza di Roma.
Il leader naturale
Ma c’è un’altra chiave di lettura che merita di essere considerata: quella legata ai modelli di leadership. Per gran parte
del film il protagonista è Remo: non solo perché Romolo è ferito quasi a morte, ma perché Remo è effettivamente un leader
naturale. Forte fisicamente, determinato e astuto, libera se stesso, il fratello e un piccolo gruppo di compagni di sventura
catturati dai nemici; assume il comando del gruppo, in virtù della sua superiorità nel combattimento; riesce a cacciare un
cervo, e quindi a nutrire i suoi; in tutto questo, trasporta il fratello moribondo. Nel frattempo, però, il suo atteggiamento
si fa sempre più dispotico e violento, e chi prova a sfidarlo paga con la vita. «Vi ho salvati, vi ho guidati, vi ho nutriti:
sono il vostro re», dice a un certo punto, e non gli si può dare torto. Il suo progetto, insomma, funziona: a tenere unita
la squadra è un perfetto mix di risultati, carisma, terrore.
Entra in scena il “noi”
A un certo punto del loro viaggio, i protagonisti conquistano un villaggio sterminandone gli uomini e assumendone senza tanti
complimenti il controllo davanti a una platea di vecchi, donne e fanciulli. Fin qui, siamo all’interno delle logiche - pur
spietate - del mercato o, fuor di metafora, della sopravvivenza. Ma quando Remo uccide - in preda a uno scatto d’ira - l’anziano
e inerme capo villaggio, travalica un limite etico e innesca la svolta narrativa. Mentre Remo, infatti, riparte con i suoi
armati, Romolo resta al villaggio, parzialmente ristabilito, trovandosi a dover gestire una frattura apparentemente senza
soluzione. «Seppelliamolo insieme», dice allora. Due parole con le quali emerge come nuovo leader, di una specie diversa:
pio, avrebbero detto gli antichi, inclusivo diremmo noi oggi.
E non è, si badi bene, la sua una posizione nobile ma improduttiva. Al contrario: quando Remo viene assalito nuovamente dai nemici, meglio armati e organizzati, a salvarlo è proprio Romolo, spalleggiato da un esercito di ragazzini del villaggio, un esercito di popolo, arruolato non più con la forza ma in ragione di un’idea di bene comune non solo teorizzata ma praticata “insieme”, con la sepoltura dell’anziano. Walk the talk, fai quello che dici, ci insegnano oggi gli esperti di management. Il mito ci dice come andrà a finire: vinta la battaglia, il conflitto di visione fra i due fratelli esplode e ad avere la meglio è il “fragile” Romolo.
Due modelli
Insomma, siamo in presenza di due modelli di leadership ben noti: quello dinamico, visionario, coraggioso ma spesso egocentrico
e tirannico; e quello inclusivo e collaborativo, magari più lento, come lenta è la guarigione di Romolo, che di fatto per
gran parte del film sembra prepararsi al suo scatto finale. Due modelli che chi lavora all’interno di una qualsiasi organizzazione
conosce perfettamente, avendoli visti all’opera numerose volte in tutte le varianti possibili, a volte addirittura in coabitazione
(o in furiosa contrapposizione). Quale è migliore? Sarebbe facile concludere che il manager-Romolo è da preferire, non solo
sul piano etico, ma perché ottiene risultati più profondi e duraturi (come fondare Roma, un brand oggi un po’ appannato ma
capace di sopravvivere per quasi tremila anni). Eppure resta incontrovertibile il ruolo di Remo, senza il quale i due fratelli-soci
e i loro “dipendenti” non sarebbero mai sopravvissuti alle sfide iniziali.
Il ruolo del tempo
E allora? E allora probabilmente ogni organizzazione ha bisogno di entrambi: di Remo e di Romolo. Di audacia e di strappi
violenti, frutto dell’intuizione, quasi solipsistici; e di ricomposizioni più lente, profonde, plurali. Meglio ancora: la
dicotomia non è solo sincronica (A oppure B), ma si fa ancora più affascinante se la leggiamo in modo diacronico (A e poi
B). Perché è il tempo, come nell’ottimo film di Matteo Rovere, uno dei protagonisti di ogni storia. E allora, forse, la lezione
è proprio che ogni leader deve nascere Remo, visionario, risoluto e competitivo, startupper, se vuole emergere; ma guai a
lui se non impara a rinunciare, a perdere, a organizzare, a evolvere in in un “noi” più complesso e inclusivo. Pena il rischio
di rimanere solo (e magari morto, metaforicamente), smarrendo l’occasione di attraversare il Tevere per fondare qualcosa di
più grande.
* Partner di The Van Group
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