Chiunque si interessi di comunicazione (professionale o personale che sia) si sarà confrontato su tematiche legate all’ascolto. Io stesso, nelle aziende, parlo tantissimo di ascolto (e trovo già questa affermazione un divertente paradosso logico). Ne parliamo (e scriviamo, anche in questa rubrica) perché quantità, velocità e complessità crescenti dei nostri interlocutori professionali e delle nostre relazioni ci mettono nella condizione di non sapere mai ascoltare abbastanza (bene), proprio in un’epoca in cui ne avremmo più bisogno.
È umano pensare che siano più gli altri che noi a non sapere ascoltare, perché la mancanza di ascolto altrui ci “brucia” di più (rimanendo sul professionale, pensate all’ultima volta in cui vi è accaduto con un venditore, un consulente, un operatore di un Servizio Clienti, insomma qualcuno che dovrebbe saper ascoltare anche “professionalmente”). Se riteniamo che l'ascolto sia una competenza professionale che ci serve in modo particolare (e usiamola la parola competenza, altrimenti rimaniamo al talento / fortuna), la frequenza di questa percezione potrebbe però spingerci a chiederci: «Se mi capita così spesso di non sentirmi ascoltato, non è che statisticamente anche io potrei non essere così bravo e regolare ad ascoltare?».
La risposta è “sì”: potremmo non essere così bravi. Se «Parlare è un bisogno, ascoltare è un'arte» (Goethe), anche noi professionisti non sempre riusciamo ad ascoltare a livello “artistico”. Anche per la contraddizione di fondo che rende così difficile il processo di ascolto: dobbiamo contemporaneamente “esserci” completamente e «non esserci» per nulla. Per riuscire ad ascoltare davvero ci serve attenzione, sensi acuiti, tutte le nostre intelligenze relazionali vivide, quindi “presenza” vera e costante. Però non riusciamo ad ascoltare davvero se non ci «tiriamo fuori» il più possibile, senza quindi giudicare, interpretare, chiedersi «cosa farei io» o dirsi «secondo me».
Quindi, come se ne esce? Più che con delle regole (che danno solo una illusoria garanzia di successo) con dei criteri, declinati soprattutto per l’ascolto professionale / consulenziale, da usare un po’ come check list al contrario (se hai la percezione di non aver ascoltato abbastanza, ecco qualche direzione per provare ad introdurre azioni). Perché ascoltare? Sembra scontato, ma vale la pena ridirselo: oltre agli aspetti di contenuto (le “cose” che mi vengono dette) c’è un aspetto di relazione fortissimo. Tendo a fidarmi di più (pensate all’ultimo consulente che avete incontrato) delle soluzioni proposte da chi mi ha ascoltato meglio.
Siccome questa affermazione nasconde anche una percezione (la percezione di essere stato ascoltato) e siccome il modo migliore di far sentire ascoltato qualcuno è quello di ascoltarlo veramente, vale la pena ascoltare anche solo perché le persone si sentano ascoltate (quindi si fidino) e quindi perché le mie soluzioni – oltre ad essere migliori perché, se ho ascoltato bene, saranno più appropriate – abbiano anche un’ulteriore possibilità di suonare migliori.
Chi ascoltare? Quanti più possibile. Anche in questo caso, la varietà è ricchezza. Chi fa consulenza conosce il senso dell'espressione «centro di insoddisfazione», cioè le persone / funzioni che determinano parti del bisogno delle organizzazioni. Soprattutto quando le persone nelle organizzazioni non fanno quello che dovrebbero, difficilmente se ne esce senza aver saputo ascoltare perché fanno quello che fanno invece di quello che dovrebbero.
Quando ascoltare? Facile: sempre. Che nasconde però un momento forse inaspettato. Sempre significa «anche quando parlo io». Nelle relazioni a due è fondamentale ma si “vede” meno. Non c’è come salire su un palco (che sia per una pièce teatrale o una presentazione in pubblico) per riuscire – se ti concentri nel farlo – a cogliere la potenza dell’ascolto del respiro, del ritmo e della presenza dei tuoi interlocutori / pubblico, e adattare quindi la tua comunicazione ad esso.
Infine: come ascoltare? Ci sono mille modi di parlare di ascolto (attivo ecc.). Ne scelgo uno apparentemente banale: facendo silenzio. E proprio il “facendo” sposta l’attenzione da quello che togliamo (la parola) a quello che dobbiamo mettere per “fare” silenzio. Viviamo (felicemente, ma non senza effetti collaterali) un’epoca caratterizzata da un flusso senza fine in cui «la comunicazione percepisce il silenzio come proprio nemico giurato … in cui il solo silenzio è quello del guasto, della défaillance della macchina, dell’arresto di trasmissioni». David Le Breton, nel suo ricchissimo «Sul Silenzio», ci dice che «se il linguaggio e il silenzio si fondono nell’espressione della parola, si potrebbe dire che qualunque enunciato nasce dal silenzio interiore dell’individuo, sempre in dialogo con se stesso».
* Partner di Newton Spa
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