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Macarthur foundation

Report: l’industria tessile cresce ma fa ancora poco per la sostenibilità. A rischio ambiente e salute

La “Venere degli stracci” di Michelangelo Pistoletto, una statua di marmo bianco imprigionata in un cumulo di abiti usati, ha mezzo secolo di vita. Eppure, potrebbe essere stata pensata quest’anno, tanto potente è la sua capacità di raccontare uno dei temi più preoccupanti del nostro tempo: l’iperconsumo e i suoi danni collaterali.

È uno scenario distopico quello che riguarda degli aspetti dell’industria tessile contemporanea descritto nel report “A new textiles economy: Redesigning fashion’s future”, appena pubblicato dalla britannica Ellen MacArthur Foundation, impegnata dal 2010 nell’evoluzione circolare dell’economia, insieme a Stella McCartney, la designer e il brand del gruppo Kering più attento al tema della sostenibilità, e a partner come H&M, Nike, Gap, Inditex.

Secondo il report il settore tessile, un business da 1,3 trilioni di dollari e con una filiera che impiega oltre 300 milioni di persone nel mondo, emette circa 1,2 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2, riversa 500mila tonnellate di fibre di microplastica negli oceani, con conseguenze molto gravi per l’ambiente e la salute umana, consuma enormi quantità di risorse non rinnovabili e acqua (93 miliardi di metri cubi), mentre il valore di abiti non utilizzati sfiora i 500 miliardi di dollari ogni anno.

Negli ultimi 15 anni, si legge nelle pagine dello studio, l’espansione della classe media globale e la crescita dei redditi ha portato a raddoppiare la produzione di abiti, passata da 50 miliardi di pezzi nel 2000 agli oltre 100 miliardi nel 2015: di pari passo, è diminuito però del 36% il tempo di utilizzo degli abiti stessi, addirittura del 70% in Cina. Nel 2050, di questo passo, la produzione triplicherà e arriverà a 160 milioni di tonnellate di abiti, con il conseguente aumento del costo ambientale, ma non solo: se non si cambierà modello, denuncia la fondazione, anche le aziende del settore potrebbero veder calare i loro margini Ebitd di oltre il 3% entro il 2030, per un valore di circa 45 miliardi di euro.

Insomma, la Ellen MacArthur Foundation, pur riconoscendo che il settore è in evoluzione, considera ancora insufficiente il suo impegno per la sostenibilità, e propone una soluzione: abbracciare il modello di economia circolare, che non prevede scarti di produzione, ma che rimette nel ciclo produttivo anche i suoi scarti, dando loro nuovo valore.

La “road map” della Ellen MacArthur Foundation propone l’utilizzo di materiali non inquinanti dall’inizio della filiera, dunque dalla creazione delle fibre tessili, con un progressivo abbandono di quelle derivate dalla plastica come nylon e poliestere; pratiche che allunghino la vita di un capo, a partire dal design e dalla valorizzazione del tema della qualità; la promozione del riuso e del riciclo, con gli attori della filiera in costante comunicazione sul tema del recupero dei rispettivi scarti di produzione; infine, un uso più efficiente delle risorse non rinnovabili.

Il tutto dev’essere sostenuto da campagne di educazione al consumo, ma anche da politiche pubbliche che incentivino chi sceglie di produrre in modo davvero “green”. Un approccio che probabilmente aiuterà a contenere l’inevitabile - per quanto temporaneo - aumento dei costi di produzione e dei prezzi per i consumatori. Un cambio di paradigma rivoluzionario, necessario e che guarda al futuro con ottimismo.

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